Le collettive supposizioni del pubblico su quali fossero le trame sonore custodite nel “libro delle anime” è ormai un lontano ricordo. Ogni vaticinio è ormai inutile. Tutto è compiuto: il sedicesimo parto dei celebri Iron Maiden ha già iniziato a soffiare i suoi riti occulti nei timpani di tutti noi. Ancora una volta si tratta di un disco che effigia la band come “Lords” assoluti del music business. A pochi giorni dalla pubblicazione, infatti, è salito in testa alle classifiche di ventiquattro paesi del mondo, Italia compresa. Un dato confortante, certo, ma che va comunque preso con le pinze, perché com’è noto, un disco che vende non è detto sia un disco qualitativamente valido. Alla luce di tutto ciò, è importante ricordare che in Italia The Book of Souls ha avuto un’accoglienza piuttosto tiepida, quando all’estero è stato accolto a braccia aperte.

I dati parlano chiaro: Metalcritic conta venti critici professionisti che hanno votato l’album con media 80/100, mentre gl’utenti lo favoriscono con media 87/100, sulla base di centoquattro voti. E ancora, se Rolling Stone non si sbilancia e si ferma ad un 70/100, ci pensa Classic Rock Magazine a piazzargli un tondo 90/100.

Da noi, invece? Beh, ci sono certamente alcune recensioni positive, ma ce ne sono altre che lo stroncano con una sufficienza stiracchiata, tra Diego Trubia e Andrea Barricelli (Metallized) che lo definiscono “troppo prolisso” e un Eric Nicodemo (Truemetal) che esalta Speed of Light come vero capolavoro del disco, perché “fa il proprio lavoro molto meglio di una pomposa suite di diciotto minuti”.

Questo divario sentenziale, diventa ancora più palpabile leggendo le incalcolabili testimonianze degli opinionisti che hanno invaso le pagine in rete. Una miriade d’utenti, lottizzati tra intenditori, incompetenti, dotti, zotici, devoti, scettici, esaltati, spassionati, morigerati, dissoluti, conservatori e innovatori; si confrontano in una mastodontica “battaglia campale” per imporre il proprio parere sull’ultimo prodotto di casa Maiden. Questo caotico groviglio di pensieri è dato generalmente dalla “diffidenza italica” riguardo al valore di questo disco; pertanto è necessario deporre momentaneamente le armi e fare un po’ di chiarezza sulle particolarità del disco, oltreché dividere il pubblico tra chi potrà tranquillamente gustarsi l’album, e chi invece dovrà inevitabilmente starne alla larga.

Che cosa custodisce il “libro delle anime?”

The Book of Souls è un disco epico, primitivo, oscuro, pregno di visioni apocalittiche e metafore sulla morte. Tuttavia, questo racconto sulla decadenza (prima dell’era, poi dell’uomo), non compare mai in forma puramente struggente, poiché la solennità degli strumenti e la corposa ugola di Dickinson, stendono un sottile manto sulla drammaticità dei testi, per enfatizzare la fierezza e l’eroismo dei vari personaggi che abitano le canzoni, ai quali Bruce presta la voce, spaiandosi così nel doppio ruolo d’attore lirico e moderno profeta di sciagure.

Dato il tanfo ancestrale e maledetto che spesso si respira nel corso di quest’ora e mezza di musica, viene spontaneo pensare che il suono non possa essere perfettamente nitido. È ben accetta dunque la registrazione in presa diretta, e anche il modo in cui sono stati distribuiti i suoni in fase di missaggio, dacché una produzione impeccabile avrebbe in parte gelato le emozioni offerte da questo straordinario lavoro.

Il basamento sonoro dell’album, è quello dei Maiden post 2000, ossia quello delle composizioni lunghe, articolate, e di quella filosofia musicale introdotta con Dance of Death, poi definitivamente forgiata dal successore A Matter of Life and Death. Stavolta però siamo di fronte a qualcosa di più minuzioso, infatti, non è un caso che lo spettro degli anni 80 si aggiri all’interno delle tracce, colmandole di autocitazioni (o ricicli) che vanno a riesumare il periodo d’oro della band, più un finale a sorpresa che potrebbe aprire nuovi orizzonti musicali per Harris e soci.

Chi sono i prescelti?

Non fatevi ingannare dal logo in copertina: The Book of Souls non è un disco per tutti. Per certi versi non è neanche un disco per puri metallari, ma andiamo con ordine.

Piacerà a chi ama follemente i Maiden, non piacerà a chi li odia a prescindere.

Ecco, fin qua, nulla di serio da tener presente: ambedue gli “schieramenti” sono troppo estremizzati e non fanno testo, poiché amare o odiare troppo una band, non ti fornisce la lucidità necessaria per distinguerne accuratamente pregi e difetti.

Piacerà ai rockettari universali, non piacerà ai metallari passatisti.

Di solito, l’assoluto cultore del rock apprezza il genere in ogni sua forma; da quelle più cervellotiche e complesse (progressive, psichedelia) a quelle più dirette ed essenziali (alternative, punk), perciò potrebbe ascoltare un disco dei Raimbow e uno dei Ramones nel giro di un paio d’ore uno dall’altro, sopportando senza difficoltà il repentino cambio di stile. Questo per dire che il rockettaro universale è una persona mentalmente aperta che favorisce la sperimentazione sonora, che non erige barriere sull’evoluzione stilistica di un progetto musicale (a patto sia qualitativamente valido), che non si pone prematuramente il problema di come possa suonare un disco, perché lo valuterà solamente durante il primo ascolto. Analizzando quindi The Book of Souls, il rockettaro universale non si preoccuperà di capire se i Maiden suonino più prog o più “80 style”, non guarderà mai l’orologio per controllare il minutaggio dei brani; si focalizzerà piuttosto sul valore artistico dell’album, cercherà di saggiarne la bellezza, liberando perciò la mente da ogni possibile fissazione.

Ovvio che questo non succederà coi tradizionalisti, ossia tutti quei metallari saldamente ancorati agli anni ottanta. Si tratta di vivaci vecchietti che vivono ascoltando continuamente i vecchi vinili, e che partecipano assiduamente ai concerti delle band storiche, per rivisitare un pogo o un headbanging che va avanti da oltre trent’anni, sulle note delle solite Breaking the Law, Master of Puppets, o (appunto) The Trooper. Va detto che ci sono anche tanti giovani che praticano questa mentalità; ma si tratta di persone che scoprono il classico heavy metal in un’era postuma alla pubblicazione dei più importanti album “anni 80”, per questo la loro curiosità nel conoscere le “vecchie glorie” (o averle scoperte da pochi anni), è puramente comprensibile. Così facendo però, questi ragazzi s’impongono i tipici limiti del metallaro conservatore, diventando perciò parte integrante di questa categoria di persone, ossia di quelli che odierebbero un disco come The Book of Souls, perché non appartiene, né recita, la formula metallica prettamente “ottantiana” di cui esso ha bisogno per favorire l’attenzione di tutti loro.

Piacerà ai veri onnivori musicali, non piacerà ai falsi onnivori musicali.

Letteralmente parlando, la differenza sembra minima, in realtà questi due gruppi d’ascoltatori hanno ben pochi punti in comune. Tanto per cominciare, l’onnivoro musicale è un vero intenditore che spazia su molti generi e che analizza le opere con serietà e criterio. Pensando a ciò, quando questo tipo d’ascoltatore inserirà The Book of Souls nel lettore, avrà in sostanza la stessa reazione del rockettaro universale, citato nel precedente paragrafo.

Di tutt’altro avviso è invece il falso onnivoro musicale, cioè il deputato della più infida categoria dei gruppi d’ascoltatori fin ora analizzati. È una persona che solitamente dichiara di ascoltare “un po’ di tutto” anche se in realtà è privo di una concreta cultura musicale. Egli vive infatti di superclassifiche e singoli radiofonici, quindi non sa realmente giudicare il valore di un disco, poiché è convinto che la qualità musicale sia stimata solo dalla quantità di copie vendute di un album. È il classico tipo che mette Made in Japan solo per ascoltare Smoke on the Water, e negandosi quindi l’ascolto di Child in Time o di Highway Star. Uno così, potrebbe aver acquistato The Book of Souls solo per Speed of Light, o più semplicemente perché ha visto l’album al primo posto tra i più venduti in Italia. Ovvio che questi falsi onnivori non possono certo essere presi sul serio; ma bisogna ricordarsi che sono le stesse persone che invadono le liste commenti delle recensioni in rete, per infangare il reale valore del disco, sparando artefatte sentenze, come: “L’album è troppo lungo, i Maiden sono finiti, le canzoni sono noiose, ecc..” si permettono dunque di stroncare un’opera che non hanno mai realmente ascoltato. Purtroppo riescono pure a fare testo. E lo fanno nel modo più balordo e ipocrita che ci sia al mondo.

A conti fatti, però è d’obbligo ricordare che tutte queste supposizioni servono solo ad offrire uno spunto parziale di quella che sarà la reazione del pubblico nei confronti dell’album. Naturalmente ci saranno rockettari universali e onnivori musicali che non gradiranno la proposta offerta da The Book of Souls, ma si parla d’inconsueti casi individuali, resi invisibili dal quadro globale della situazione, dove si è cercato soltanto di sezionare vagamente il pubblico, al fine di capire chi fossero i prescelti per l’ascolto del disco. Qualora non vi foste riconosciuti in nessuna delle sopraccitate categorie, il consiglio è di procedere ugualmente all’ascolto; se invece vi foste riconosciuti… avrete di certo già inquadrato il vostro gruppo d’appartenenza.

Scacciamo i falsi miti

Su The Book of Souls ne sono state dette tante. Consensi a parte, ci sono state accuse attendibili e costruttive, ma contemporaneamente anche molte critiche insensate, non solo tra gli opinionisti, ma addirittura negli scritti firmati dai recensori professionisti. Lo scopo di questa sezione è tentare di scagionare le più insensate insinuazioni sbraitate sull’album, al fine di concentrarci unicamente sui reali pregi e difetti di questo parto discografico.

“L’album è troppo lungo”.

Che cosa significa “troppo lungo?” Da quando la qualità di un’opera si misura col cronometro? E soprattutto perché agli Iron Maiden non è concesso proporre un disco dall’ampio minutaggio? In fondo, se provassimo a voltare lo sguardo verso le creazioni artistiche del passato, c’imbatteremo in una miriade di “mattoni” mutati in schegge del sapere umano. Pensiamo per esempio a L’anello del Nibelugo di Richard Wagner, una tetralogia lunga quindici ore (circa tre ore e mezza per parte), oggi considerata patrimonio della musica classica e dell’opera lirica; pensiamo a Guerra e Pace di Tolstoj (oltre millequattrocento pagine); pensiamo al bellico Apocalypse Now di Coppola (la pellicola originale durava centocinquanta minuti, mentre la versione Redux ne conta addirittura centonovantasette); o pensiamo più semplicemente al celebre The Wall dei Pink Floyd, doppio album della durata complessiva di ottantuno minuti (circa dieci in meno rispetto a The Book of Souls). Quattro esempi, per farvi capire quant’è insignificante la critica sul disco in esame. Ovviamente The Book of Souls non è un capolavoro, specie se confrontato con l’imponente bellezza delle opere succitate. La morale della favola è, infatti, più modesta, oltreche meravigliosamente verace: la qualità di un’opera non è determinata dalla prolissità della stessa.

Le canzoni sono troppo lunghe”.

Chi appoggia tale affermazione, non solo si è perso buona parte della storia del rock, negandosi quindi l’ascolto di brani come War Pigs o Stairway to Heaven, ma dimostra anche di non conoscere per niente la discografia dei Maiden stessi. Ora, tralasciando i quasi quattordici minuti di Rime of the Ancient Mariner, esistono una miriade d’altre suite “Maideniane” molte delle quali composte proprio nel periodo d’oro. È il caso di Caught Somewhere in Time (circa sette minuti e mezzo), o di Alexander the Great (otto minuti e mezzo), o ancora di Seventh Son of a Seventh Son (circa dieci minuti), senza contare la trafila di brani che durano tra i sei e i sette minuti. Vero anche che gl’album degli anni ottanta proponevano anche molti pezzi più “easy” composti da riff diretti e da trascinanti chorus nei refrain, ma questo non significa che The Book of Souls si neghi questo tipo di canzoni: Speed of Light, Death or Glory e Tears of the Clown, sono tutte lì a dimostrare (ognuna con la sua storia e la sua atmosfera) che l’animo più spontaneo della band non è ancora sprofondato sottoterra. Dal duemila a questa parte, i Maiden hanno semplicemente invertito il loro storico modo di comporre. Ora scrivono prevalentemente suite; e solo talvolta si lasciano andare a qualche pezzo più immediato. D’altronde ci sono sempre tre chitarristi da sfruttare, e i brani lunghi servono proprio per dare al trio Smith/Murray/Gers il giusto spazio per esprimersi al meglio.

“Dickinson è sottotono”.

Ecco questa è un’altra leggenda metropolitana che merita la netta abrogazione. Cominciamo a ricordare che i live degl’ultimi tour “Maideniani” (visualizzabili in rete), sono una testimonianza palese di come Bruce sia ancora in grado di cantare ottimamente il vecchio repertorio della band, e continuiamo affermando che se davvero il singer sforzasse sulle note alte, (come molti credono di sentire, soprattutto sulle recenti prove in studio), sul palco rimarrebbe senza voce dopo aver eseguito i primi brani. Per togliersi il dubbio, basta andarsi a ripassare il Live After Death del 1985, dov’è udibile lo stesso “effetto sforzo” passato inosservato, probabilmente per (l’allora) giovane età del cantante. Ora però, lo stesso modo di cantare è visto come un problema causato dalle datate corde vocali di Bruce, quando in realtà esistono ben altri e più clamorosi casi di cantanti che hanno perso la voce. Ian Anderson dei Jethro Tull ad esempio, non ha mai avuto un timbro potente e altisonante, ma ha sempre interpretato i brani con voce bassa e nasale; nonostante ciò, soffre da molti anni di un notevole calo vocale. Per rendersene conto basta ascoltare Living Whit the Past, live album del 2002, in cui si ode Anderson (all’epoca cinquantacinquenne e poco più giovane di Dickinson oggi) sforzare su molte note, in particolare durante l’esecuzione di Aqualung, dove alcuni passaggi gli escono quasi sussurrati. Ma il calo vocale non ha coinvolto solo voci istintive e autodidatte come quella di Anderson, ma anche quelle più tecniche e pluritimbriche, come quella di David Defeis, leader dei Virgin Steele, autore dal vivo d’invidiabili performance vocali, almeno fino alla fine degli anni novanta. Oggi purtroppo è spesso costretto a ricorrere al falsetto, quando prima le note alte gl’uscivano sempre a “voce piena”. Tutto questo per dire che, alle soglie dei sessant’anni, Dickinson è ancora in grado di cantare molti brani del suo repertorio in tonalità originale, e su The Book of Souls non riesce a deludere le attese, regalando un'altra performance potente e altisonante, oltreche straordinariamente teatrale ed espressiva. Solo alcuni vocalizzi gl’escono un po’ “grattati” ma potrebbe essere una cosa voluta.

“L’album suona troppo prog”.

Se i sostenitori di quest’idea fossero identificabili soltanto tra i “maideniani ultraconservatori”, quelli che per intenderci si fermano al 1984, allora non ci sarebbe nulla da dire. Ma il fatto è che molte persone credono che con The Book of Souls, gli “Irons” abbiano eccessivamente abusato delle influenze prog quando premiano un capolavoro storico come Seventh Son of a Seventh Son del 1988, che possiede tutte le caratteristiche della musica progressiva, in quanto permeano in esso composizioni più sofisticate, ornate dai guitar synth (già introdotti col precedente Somewhere in Time, del 1986), e da un tocco di neoclassicità grazie agli arrangiamenti sinfonici che spesso compaiono in sottofondo (soprattutto nella title-track). Insomma, già dalla metà degli anni ottanta gli Iron Maiden avevano optato per un suono più ricercato e macchinoso, e dopo la parentesi prevalentemente hard rockettara, udibile nei rispettivi No Prayer for the Dying del 1990 e Fear of the Dark del 1992, tornarono a sperimentazioni più prog oriented, da The X Factor in poi, con la mastodontica Sign of the Cross suite più sperimentale e innovativa rispetto all’intero e troppo lodato Brave New World del 2000, disco eccellente ma erroneamente considerato come l’apice discografico dei nuovi Maiden, quando in realtà non era altro che la fusione tra lo stile di The X Factor con il Dickinson solista di The Chemical Wedding (uscito nel 1998). Chi scredita The Book of Souls, lodando eccessivamente Brave New World, forse si è scordato che quest’ultimo album conteneva pezzi come Blood Brothers, Dream of Mirrors, The Nomad, e The Thin Line Between Love and Hate, che avevano forti tinte prog, senza contare che le ultime due erano acerbi esperimenti di quanto la band avrebbe fatto sentire qualche anno dopo con la seminale Paschendale dall’album Dance of Death del 2003, canzone che ha definitivamente spianato la strada verso la filosofia compositiva di A Matter of Life and Death del 2006, fino a quel momento l’album più prog oriented firmato da Harris e soci. Insomma, chi accusa The Book of Souls di suonare troppo prog è obbligato a fare i conti con un passato dove tale stile rimane impresso fra le principali influenze “Maidendiane” senza mai però stravolgere il basamento sonoro che da sempre caratterizza la band: l’heavy metal classico.

Alla ricerca del vero

Ovviamente The Book of Souls non vive solo di accuse infondate, ma anche di concreti pregi e difetti, com’è da tradizione nella maggior parte dei parti discografici. Il più grande punto debole dell’album (forse l’unico davvero notevole) risiede in una fase precisa della produzione. Abbiamo visto che il modo in cui sono stati equalizzati i suoni potrebbe donare ulteriore fascino al “clima” dell’opera, tuttavia, i tecnici in studio hanno commesso un grave errore in fase di mastering inserendo il singolo Speed of Light in seconda posizione, brano che, oltre ad apparire scomodo, continua a palesare la propria inutilità, soprattutto perché esso si pone tra l’evocativo mid-tempo dell’opener If Eternity Should Fail e l’apocalittica ed epica The Great Unknow. Ambedue i pezzi hanno un legame soprattutto testuale mentre Speed of Light propone un hard’n’heavy vagamente futurista con un testo inneggiante al pessimismo cosmico, un brano pensato unicamente per una trasposizione in sede live, ma che spezza acremente il clima dei pezzi che lo cingono. Su The Final Frontier avrebbe fatto la sua figura, su The Book of Souls certamente no. Discorso simile per Death or Glory: cinque minuti che riportano direttamente ai tempi di Piece of Mind, mostrandosi però un po’ manieristica, anche se piacevole all’ascolto, mentre When the Rivers Run Deep poteva essere il vero singolo di questo disco, col suo irresistibile heavy spedito che pare menzionare il materiale di Somewhere in Time (con qualche guitar synth in meno).

Pensando invece al momento più discutibile dell’album, diventa inevitabile citare The Red and the Black, che occupa la quarta posizione della tracklist, ed è l’unica suite firmata da Steve Harris. Di certo un ottimo pezzo, ma ha i suoi difetti, a partire dall’ingenuo assolo di basso (usato come intro e outro del brano), dal clima vagamente dark, ma lordato da una scala di note che sembra riprodurre un flamenco, quando il pezzo vero e proprio mostra strofe molto avvincenti e incisive (grazie al mirabile Dickinson), per poi snodarsi in un superbo strumentale di sei minuti dove le chitarre si scambiano convenevoli a non finire, in un estatico groviglio elettrico, emanante una passione e un’ispirazione che non si sentiva da anni. Peccato solo per qualche chorus di troppo: i soliti oh, oh, indirizzati al fan medio; il compito a casa prima dell’interrogazione davanti al palco. Sarebbe stato più intelligente non infarcire il pezzo di tutti questi vocalizzi e lasciare che essi nascessero spontaneamente in concerto (come accadde con Fear of the Dark), semplicemente perché in questo modo tutto diventa più forzato e ruffiano. Sono ben più azzeccati i chorus nella parte finale dell’eroica Shadows in the Valley, che dopo la solenne e magistrale title-track (un’oscura e antica profezia della civiltà Maya), fa da epilogo al lato più atavico e maledetto dell’album.

Dopo aver visitato scenari apocalittici e mondi dimenticati, ecco che il concetto della disfatta cambia subitamente bersaglio: il caos ambientale diventa di colpo caos interiore, quello dell’uomo, dei suoi tormenti, e di tutte le sciagure che lo attendono al varco, tramite il trittico finale che mostra il lato più sperimentale di tutto l’album. Ascoltando infatti le note iniziali di Tears of the Clown ci si accorge subito del repentino cambio d’atmosfera: un hard rock melodico, breve ma intenso, che amaramente filosofeggia sul lato celato della comicità, ovvero la tristezza; l’afflizione umana nascosta dietro la buffa maschera di un pagliaccio. E quando cala il sipario, ecco che il dolore di quest’uomo si espande al resto del mondo: Man of Sorrow è una denuncia alle menzogne con cui il potere infanga l’esistenza di tutti noi. La sua trasposizione musicale è senza dubbio uno dei momenti più interessanti dell’album. Un’apertura decadente e notturna, poi un robusto riff prog-oriented, un bridge sgraziato e soffuso, e un recitato refrain che sembra liberare un timido sprazzo di luce in mezzo a tanta malinconia. Bellissime anche le parti strumentali, con le chitarre che s’incrociano in un viluppo elettroacustico in salsa psichedelica. A questo punto, quando il disco sembra aver liberato tutta la sua forza emotiva, ecco giungere il momento più sublime: Empire of the Clouds palesa l’amore di Dickinson (autore del pezzo) per Queen e Genesis. È una suite di diciotto minuti che, pur conservando lo stile “maideniano” è impreziosita da inserti prog e neoclassici, mai tanto evidenti prima d’adesso; una composizione raffinata e tragica nella quale Bruce da sfogo a tutto il suo estro lirico, narrando del disastro aereo del dirigibile R101, avvenuto il 5 ottobre 1930.Un testo poetico ed una musica commovente trasportano l’ascoltatore in questo estenuante viaggio verso la morte, un volo scandito dalla calda ugola di Dickinson, mai così ispirato, forse perché è proprio il cielo ad allestire lo sfondo di questa tragedia…il suo cielo…lo stesso che tante volte ha percorso vestendo i panni del pilota di linea. Il disco sfuma con le note del piano e l’ultima strofa scandita dalla soave voce del singer, prima di lasciare spazio ad un silenzio che scompone le sensazioni dell’ascoltatore, mollandolo in uno stato in bilico tra compiacimento e mestizia.

Chiudiamo il libro

Siamo di fronte ad uno dei più grandi successi commerciali del 2015, un prodotto che ha suddiviso il pubblico in mille schieramenti diversi. The Book of Souls ha avviato uno sconfinato, difforme e confusionario groviglio di sentenze, per questo il voto netto doveva essere dettagliatamente giustificato ai lettori. Da tale riflessione nasce l’esagerata prolissità di questo scritto. Poi il disco continuerà lo stesso a far discutere, anche dopo averlo esaminato in modo così morboso. È importante però chiarire che questo voto non vuole elogiare la band, ma la bellezza del disco, le sue sorprese, la sua capacità di saper riciclarsi e innovarsi al tempo stesso.

Federico “Dragonstar” Passarella

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