Quando ci si avvicina ad un cane si ha sempre un dubbio: inizierà ad abbaiare, feroce, o si piegherà alle nostre moine ipocrite?

Ora, noi siamo il cane, Jacopo Incani (per le casalinghe Iosonouncane) è il passante smanioso di eccitare la creatura. Come tutte le bestie si reagisce irrazionalmente, per un'istinto animalesco o per l'odore sgradevole o piacevole che il nostro fiuto capta nell'aria. Rinchiuso tra i peli di un cane, io ho reagito secondo la mia istintuale soggettività in maniera positiva all'esordio di questo artista.

I personaggi di questa scenetta sono un ex impiegato di un call center (il nostro eroe), una loop machine, un campionatore e qualche frammento di chitarra acustica. I ritmi sono cauterizzanti, pezzi di metallo che bruciano e disinfettano, disincantano con violenza perché ridotti ad una sostanza primitiva e brutalmente ripetitiva, che fanno da scheletrica impalcatura ad un susseguirsi di suoni cigolanti e perforanti.

Il tutto viene amalgamato alla perfezione da una voce che è tutt'altro che dolce e melodica, anch'essa stridula e violenta, che vomita suoni materializzati in un epilettico carosello di testi stridenti ed allucinati, altamente deformanti e che fanno da riflesso scomposto di una realtà, quella italiana, incrinata e perforata di crepe profonde, che lasciano croste sotto cui prolifera la putredine verminosa della morte. 

Ho provato questo durante il mio non particolareggiato primo approccio sessuale con il disco, il momento in cui senza badare alla divisione interna delle tracce, lo tracanni come un alcolico del LIDL fino a quando la bottiglia rimane vuota e l'infernale tumulto del liquido scadente suscita le grida di vendetta dello stomaco.

Un'impressione, direte voi, di nausea. Giusto.

Ma è una sensazione voluta, che, stranamente, cercavo inconsapevolmente da tempo. Se vogliamo, la trasposizione di impressioni subconscie da Pomeriggio sul 2, quello stato d'animo che barcolla ubriaco tra il bestiale bisogno di smembrare opinionisti e manichini, di staccare violentemente pezzi di esseri umani che non sono più tali, e quella pietà disperata, quel bisogno di compatire ombre che sono destinate a dileguarsi, dimenticate, al successivo accendersi dei riflettori.

Si scolpisce nella cupa e nera argilla il ritratto di una nazione in libera caduta, in cui si muovono con frenesia pupazzi di pezza, che si affrettano a raggiungere il prossimo talk show, la partita allo stadio, una spiaggia affollata. 

L'esaltante esordio è una parata sghemba di pezzi di carne che il sole rantolante ritaglia sulla sabbia della spiaggia, bagnati di sudore e crema solare. Si percepisce l'odore della pelle bruciata dai solarium, dalla plastica fusa di bionde quarantenni in carriera, ed il profumo dei cadaveri degli immigrati in decomposizione sulla spiaggia; sotto, la cassa incalzante trasforma il ritmo straniante una marcia epica verso il collasso universale (Summer on a spiaggia affollata).

L'opera continua su questi toni, proseguendo con uno sguardo allucinato, schizofrenico, accompagnata da una voce che oscilla tra il cinismo del moralista disilluso e la disperazione chiusa, la consapevolezza dell'impossibilità di sopravvivere tra le mura intonacate di olio di un fast food.

Momenti commoventi, irradiati da una chitarra che intona ballate funebri, epitaffi per cani randagi lasciati sotto lo schiacciante roteare dei pneumatici su una strada di provincia. Momenti di completa alienazione, sradicamento, isolamento, rumori da catena di montaggio e da fabbrica metalmeccanica, che riecheggiano tra le infinite distanze di un cubicolo da call center.

E sul finire, balli di gruppo, trenini di grassoni e grotteschi imbonitori circensi, vecchie accarezzate dal silicone, puttane ancora vergini, che percorrono, falange compatta, le strade e le città, preparandosi, famelici di fibre muscolari, all'ultima gioiosa ordalia.

 

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Finito l'ascolto, recensisco e, sul punto di piazzare un 4/5, faccio il cattivo errore, che spesso evito, di capire chi in effetti sia il direttore d'orchestra di questo spettacolo dissacrante. Mi guardo un'intervista, forse l'unica disponibile, da cui esco in poche lettere: deluso. Qualcuno penserà che dovrei andare a pascolare le banane per questa imperdonabile eresia.

Kierkegaard mi pare dicesse che la vera arte può scaturire solo dal vissuto personale: quel quattroquinti di voto mi era stato ispirato da un'immagine mentale dell'uomo dietro lo strumento, un confinato sociale, oscillante tra la passività autodistruttiva e una lucidità amara nei confronti del reale, che sentivo empaticamente vicino. Gran parte della mia ammirazione era frutto di una convinzione: che Jacopo Incani fosse un comune mortale, legato a me, a noi, da una solidale fratellanza nella disperazione. E nella sua similarità a me sapeva commuovermi.

Invece l'intervista mi ha rivelato quello che volevo non mi venisse rivelato: l'atteggiamento altezzoso, la superiorità ostentata, la posa da artista snobista, il genio mercificato e farcito di metafore ad effetto. Qualcosa di completamente diverso dalla sincera semplicità di un Vasco Brondi, che non nasconde la sua persona comune, il suo essere uomo prima che demiurgo musicale.

E allora la commovente disperazione del grido si è macchiata impercettibilmente, ha perso la sua carica primordiale e, illuminata da una diversa prospettiva, ha assunto i tratti di una maschera, utilizzata per celare parzialmente la presuntuosità tipica dell'intellettuale pieno di se stesso

Ma, in fondo, questo è il mio parere e soggettivo è l'apprezzamento che, a conti fatti, mi sento di esprime nei confronti di questo disco. Per molti altri apparirà inascoltabile, brutale, raschiante nelle sue sonorità;

Ma, se dallo stralcio che vi ho tentato di dare, vi sembra che siate pronti per qualcosa del genere, buttatevi ad ascoltarlo, perché potreste perdervi qualcosa di abnorme e grandiosamente deforme. 

 

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