Vorrà pur dire qualcosa il ricercare quello che, a detta di Marcel Proust, è il cosiddetto tempo perduto. Ed è pur vero che, quando riconsideriamo eventi passati, li vediamo sotto una luce scintillante, tanto dorata da mettere in ombra gli aspetti negativi. E il passato è pertanto una fonte inesauribile di scoperte e ricoperte.

Tanto per dire, grazie allo stimolo trasmessomi da un padre cinefilo, ho avuto la fortuna di vedere film che mi hanno colpito in tenera età. E quello che vado a segnalare è non solo un titolo particolare ("Playtime" ), ma è l' opera di un autore che ai contemporanei appare dimenticato ovvero Jacques Tati. Sì perché non è solo il fatto che sia mancato nel 1982, ma è anche il facile oblio del suo nominativo dalla lista dei grandi registi scomparsi nel passato prossimo (è spontaneo citare Hitchcock, Fellini, Kubrick). È un po' come se Tati fosse scomparso definitivamente dall'attenzione generale, una specie di Ettore Maiorana della celluloide. Eppure, il suo stile cinematografico è stato influente non solo su autori contemporanei come Jerry Lewis e Blake Edwards, ma anche su altri successivi come Lynch, Kaurismaki, Anderson, lo stesso Nichetti (basterebbe guardare "Ratataplan" ..) . Il suo è stato un contributo importante alla crescita dell'arte cinematografica del ventesimo secolo. In linea con la lezione fondamentale dei vari Chaplin e Kraton, Tati si è avvalso della sua precedente esperienza di mimo e, da acuto osservatore del comportamento sociale umano, ha proposto uno sguardo disincantato sulla moderna società di massa e sulla conseguente alienazione dell'individuo. E con uno stile garbato ed ironico, riducendo al minimo i dialoghi e privilegiando l'osservazione.

Per realizzare "Playtime" Tati impiegherà ben 3 anni di lavorazione, tanto da creare un mini quartiere chiamato poi Tativille, sulla falsariga del quartiere ultramoderno della Defense a Parigi. Il costo complessivo sarà proprio esorbitante e, dati i magri incassi della pellicola, Tati perderà parecchi soldi. Nel film, il protagonista che è sempre il famoso monsieur Hulot (alias Jacques Tati) fronteggia non più solo i moderni ritrovati tecnologici concentrati nella villa del precedente "Mon oncle", ma addirittura deve destreggiarsi in una moderna città che sarebbe Parigi stessa. Solo che non si tratta della romantica metropoli conosciuta come "ville lumiere". Qui , semmai, la silhouette dei famosi monumenti come l'Arco di Trionfo, la Tour Eiffel, la si può ritrovare solo riflessa nelle porte a vetri dei palazzi moderni di Tativille, quasi fossero miraggi nel deserto.

Per il resto Hulot e i vari personaggi del film (fra cui una comitiva di turiste americane) si aggirano disorientati iin una città moderna uguale a mille altre. Ed emerge il tipo di rapporto che si instaura fra il singolo e e la città iper tecnologica, basato soprattutto su suoni, segnali luminosi, percorsi guidati in uffici grigi e iper funzionali, tanto che le persone sembrano automi sfuggenti l'un l'altro, incapaci di comunicare realmente. La città moderna ha quindi le sembianze di un gigantesco labirinto e monsieur Hulot, come le stesse turiste americane, vaga inutilmente fra corridoi e locali arredati in modo uniforme e spersonalizzante.

Incontrare persone e visitare Parigi sarà solo un grande abbaglio. Fortunatamente però, pur in una realtà così iper organizzata, potrà capitare di trovarsi all'inaugurazione di un ristorante di gran lusso, chiamato Royal Garden , in cui l'arredamento moderno mostrerà anomalie tali da perdere letteralmente i pezzi e le stesse piastrelle, con esiti disastrosi ed esilaranti (situazione poi ripresa da Blake Edwards in "Hollywood party" l'anno dopo).

Rivisto oggi il film non ha perso lo smalto e l'Hulot di Tati , così allampanato da sembrare un Pierrot lunare, si qualifica come un estraneo rispetto alla società moderna e tecnologica. È come un apolide che guarda perplesso i meccanismi iper cinetici del consorzio cosiddetto civile. La sua è una rappresentazione garbatamente ironica di quei tempi (ma oggi non sarebbe diversamente se solo pensiamo all'attuale uso ossessivo dei smartphone..) . Tati è stato un convinto dissidente rispetto agli usi e costumi della società dei consumi.

E se penso che vidi "Playtime" per la prima volta insieme a mio padre nel marzo 1968, il mio pensiero corre a quanto era effervescente quel frangente storico . Al punto che, fra i vari fatti di quell'anno, l'allora candidato alla presidenza Usa Robert Kennedy pronuncio' un discorso importante sulla necessità di considerare il benessere di una nazione non solo in base ai dati del Pil, ma anche in base ad altri fattori che concorrono alla qualità della vita. Si sa poi come fini' male Robert Kennedy, ma a pensarla come lui erano anche altri e nelle opere di Jacques Tati risalta chiaramente come la vita dell'uomo moderno debba abbandonare certe frenesie per risultare veramente equilibrata ed in linea con i ritmi naturali. Inutile dire che, a distanza di decenni, questa necessità è ancora lettera morta.

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