Un dischetto qualsiasi di Giacomo Sarto, tanto siamo lì, nella cosiddetta media eccellenza. Mai un disco brutto, cioè… L’eleganza è cristallina, sia nella voce setosa e mobile sia nella resa della sua provetta sei corde Martin, pizzicata con dita educatissime. Certo, per apprezzare bisogna possedere il gusto per le cose californiane, propriamente qualitose ma sempre con una patina di radical chic e certo molto lontane dal sanguigno suono degli stati sudisti, o ancor più da quello psicotico oppure gloriosamente “Broadway” della Grande Mela.
Che poi Taylor è effettivamente nato ad est, in Massachusetts… vabbè comunque è un immigrato in West Coast, da sempre. Quest’album è del 1991 ed al solito il titolare è discretamente ma efficacemente accompagnato dalla crème della crème dei musicisti americani, i quali accorrono felici ad ogni sua chiamata perché sanno di potersi cimentare con un soft rock intelligente, ricercato, ricco di sfumature jazz e blues, perfetto per le loro professionalissime pennellate strumentali.
Nella nostalgica “Copperline”, brano di punta del lavoro, vengono rimembrati da James i momenti sereni e formativi passati da ragazzo nella località di vacanza abituale della famiglia. “Down in the Hole” subito dopo è ben diversa: la voce è sorprendente, insolitamente tesa e accorata, spinta su note alte (per lui) e piene di smarrimento, in accordo con il testo; l’arrangiamento si appoggia sull’affilata chitarra elettrica del maestro dei maestri Michael Landau.
L’eclettismo di Taylor viene ancora una volta messo in mostra dallo svelto rhythm & blues “Stop Thinkin’ ‘Bout That” e ancora dalla corale e socialmente impegnata “Shed a Little Light”, cantata bravamente a quattro voci, quella della povera Valerie Carter a svettare. “The Frozen Man” va invece a parare su melodie e concatenazioni di accordi già più che esplorati dal nostro; la sua acustica però vi arpeggia più musicale, riconoscibile e accogliente che mai.
“Slap Leather” è un rock’n’roll corto e sveltissimo, molto ortodosso, fitto di parole. Prepara il terreno alla convenzionalissima, per Taylor, “Like Everyone She Knows”, allietata da una lunga introduzione della sua Martin; Brandford Marsalis vi dipinge poi sopra col il soprano, con palese ispirazione essendo una di quelle composizioni del bostoniano che fanno andare in solluchero gli strumentisti come lui, piena com’è di ricercati accordi jazz.
A contrasto “One More Go Round” è un rock blues raccolto e “ottuso” armonicamente rispetto a ciò che lo precede, ma con assoletto delizioso di Landau all’elettrica. Percussioni e ritmi cubani invece per “Everybody Loves to Cha Cha Cha”, un titolo un programma! La successiva “Native Son” assomiglia nuovamente ad altre cose di James disperse in altri dischi, non così per “Oh Brother” che tra dobro country, cori gospel, cambi di ritmo, battiti di mani è un guazzabuglio di ottime idee esecutive, dispiegate peraltro su di un canovaccio melodico non particolarmente memorabile.
In chiusura l’intimista “The Water Is Wide”, introdotta e variegata dal violino, sta a cullarci a ninna nanna e senz’altro ci congeda da James senza scossoni. La formidabile classe di quest’uomo, che ricordo per inciso avere avuto l’incredibile impudenza di farsi lasciare dalla graziosa (eufemismo) moglie Carly Simon per sfinimento… tossico, è ancora una volta ribadita in questo gustoso lavoro senza tempo.
Carico i commenti... con calma