Dal vostro inviato Jake Chambers - vol. 3 (fine) 

Ed eccoci giunti all'apice della manifestazione patavina, il concerto che senza alcun dubbio ha attirato più attenzione da parte del pubblico. Per questa mia ultima sortita, si cambia location: dall'auditorium "C.Pollini" al centralissimo Teatro Verdi, tradizionale ritrovo per gli appuntamenti più prestigiosi (e mondani) della città.

Campeggia sul palco una bella scritta luminosa PORSCHE (che grazie al cielo verrà rimossa durante il concerto). Assistiamo al saluto delle Autorità, l'omaggio floreale del vicequalcosa all'assessore di non so cos'altro, insomma tutte le formalità burocratiche del caso. Sale sul palco persino un rappresentante della Porsche che ha il coraggio di dire una frase tipo: "l'emozione che dà questa musica è la stessa emozione che dà il nostro marchio". Resistiamo alla tentazione di rispondergli dove se le può ficcare, le sue lussuose fuoriserie, ed attendiamo pazientemente l'arrivo del direttore artistico Claudio Fasoli, l'unico sul palco a capirci qualcosa di musica, che introduce brevemente il concerto.

Eccolo finalmente, il norvegese Jan Garbarek, imponente figura di artista che ha senz'altro contribuito ad espandere il linguaggio jazzistico al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati, instancabile contaminatore del jazz con i ritmi e le suggestioni della sua terra, uomo e musicista dai molti meriti.

La formazione che la accompagna è di sicuro al di sopra di ogni sospetto: alle percussioni l'indiano Trilok Gurtu, musicista di grande carisma ed inesauribile fantasia. Al pianoforte, tastiere e synth il vecchio collaboratore Rainer Brüninghaus. In questo gruppo, al basso siamo abituati a vedere Eberhard Weber, invece troviamo il più giovane Yuri Daniel, uno di quei supersonici diteggiatori al basso fretless che oggi vanno per la maggiore.

Anche in questo caso, il concerto (suonato molto generosamente per quasi due ore) si snoda senza soluzione di continuità, con interventi solistici di grande tecnica ed effetto a fare da trait d'union tra un brano ed il successivo.

E qui veniamo al primo problema: le nuove composizioni non sono all'altezza di quelle del passato. Non vi è più traccia delle lunghe cavalcate sassofonistiche, che sembravano concepite per essere suonate su una tundra ghiacciata, spazzata da un vento gelido. Ci si riprende un poco con la riproposizione di alcuni classici, "There Were Swallows" e il bis a fine serata "Voy Cantando", ma gli arrangiamenti sono calibrati al limite della leziosità, carezzevoli e inoffensivi.

Tutti si danno un gran daffare per farci vedere quanto sono bravi. Yuri Daniel elabora in solitudine una intelligente architettura sonora che racchiude "Cravo e Canela" di Milton Nascimento, e che sfocia nel momento corale di "Miracle of the Fishes" di Wayne Shorter e dello stesso Nascimento. L'arrangiamento di tastiere che Brüninghaus riserva ad alcuni temi è a dir poco sopra le righe, "pimpante" e chiassoso. Non c'è un intervento del leader che si sollevi al di sopra dell'immacolata maestria tecnica. Fa eccezione Trilok Gurtu, che ci delizia nella sua "isola felice" percussionistica, con musicalissimi interventi che fanno suonare gli oggetti più strani e disparati.

Virtuosismo d'acciaio che costruisce una patina lucida, multicolore ma in definitiva fredda, che impedisce alle emozioni di raggiungere il pubblico. Pubblico che comunque ha dimostrato di gradire assai questo nuovo corso, con tanto di applausi a scena aperta e standing ovation finale.

Questione di gusti. Le emozioni che ho ricevuto stasera sono ben poca cosa, se le paragono al ricordo di un concerto del trio "Star", che vedeva il nostro in compagnia di Peter Erskine alla batteria e Miroslav Vitous al contrabbasso. L'atmosfera si fece magica già dalle primissime note del sax soprano ritorto di Garbarek, e il trio incantò la platea per tutta la durata del concerto: non si sentiva volare una mosca.

Ribadisco la mia grande stima per il sassofonista scandinavo, e non vorrei iscrivermi per partito preso alla fazione di quelli che dicono: "Garbarek è artisticamente morto". Non ho mai stigmatizzato la seconda fase della sua carriera, quella più "morbida" e cantabile, che secondo me ha prodotto dischi suggestivi ed intriganti come "Twelve Moons", "The Legend of The Seven Dreams" e "Rites", anche se lontani dal musicista visionario del quartetto europeo di Keith Jarrett, o di lavori come "Afric Pepperbird".

Detto questo, devo ammettere che c'è una parola che mi è affiorata alla mente per tutta la durata delle recensione, che ho tentato di evitare o dribblare con perifrasi, e che devo scrivere per onestà verso me stesso e chi mi legge.

Noia.

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