Sono passati ormai 12 anni dai Pulp di “Common People” e “Disco 2000” cantate da questo personaggio rimasto per anni nella penombra. Jarvis Cocker, dopo la stesusa dei testi per l’ultimo lavoro di Charlotte Gainsoburg, torna con il suo primo disco solista, fatto di sonorità Pop e, ovviamente, quel Brit Pop che tanto aveva caratterizzato la scena musicale inglese degli anni Novanta. Questo lo si può capire subito dalla seconda traccia “Don’t Let Him Waste Your Time”.

Ma nel disco ci sono due capolavori, che come sempre arrivano sempre alla fine. “Quantum Theory” è un pezzo che impressiona subito dal primo ascolto. Chitarre acustiche, voce bassa e cupa di Cocker, che pronuncia le uniche parole di speranza del disco:

"Somewhere gravity can not reach us anymore, somewhere we’re not alone. Everything is gonna be alright"

Sonorità mai sentite prima da lui. Sembra più un pezzo di Nick Cave in certi punti, ma il finale di questo pezzo sembra cercare una via d’uscita gloriosa in una società guidata da stronzi, come dice il cantante inglese. Questa sua tesi è relegata in fondo al disco, nella ghost track e primo singolo estratto “Running the world”, un altro capolavoro. Con questo modo di posizionare le tracce, Cocker ci vuole dire che le cose migliori si fanno sempre alla fine, quando non ti accorgi di sapere che cosa hai fatto in un periodo della tua vita in cui non ti saresti aspettato niente di esaltante.

L’album di Jarvis Cocker è un buon album e si distingue dalle altre uscite discografiche di questo periodo, che sono poche e, molte, molto scadenti (scusate il gioco di parole : D).

I rimasugli dei Pulp si fanno sentire soprattutto in “Heavy Weather” e “Big Julie”, mentre nelle altre tracce il cantante inglese prende dimestichezza con sonorità molto differenti: “Black Magic” sembra un pezzo pop degli ultimi anni Novanta. “I Will Kill Again” e “Disney Time”, lente e inquietanti e nello stesso tempo. Invece dolci "Baby's coming back to me" e “Tonite”, una canzone datata nei suoni “From A To I” e un pezzo Indie Rock che sorprende tutti: “Fat Children”.

Nulla di nuovo sul fronte inglese quindi, ma soltanto un insieme di buonissimi brani che ricordano tanto tempi andati e capace di creare sensazioni molto contrastanti in poco più di un’ora. C’è da lodare la maturità di Jarvis Cocker, sia per quanto riguarda la musica, sia per quanto ha scritto nei testi, in cui si è esposto ed ha voluto descrivere soprattutto la società inglese.

“Jarvis” è da ascoltare comunque, dato che in questi anni trovare un disco degno di nota è veramente molto difficile.

 

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