"Non chiederci la parola" - direi con il poeta, se qualcuno mi chiedesse di descrivere (o almeno di PROVARE a farlo) qualcosa del genere. Ma l'impresa è impari, impossibile negarlo. Eppure qualcosa andrà detto, eppure uno sforzo andrà fatto, per più di un motivo: non perché (o comunque, non soltanto) sono passati 50 anni esatti dalla prima proiezione dell'opera, e neanche perché - ad oggi - nessuno su DeBaser mi ha preceduto nel recensire questo film. Quella che state leggendo non si può neanche considerare una recensione in senso stretto, meglio intenderla come un atto di riconoscenza. Riconoscenza verso Chi ha pensato e prodotto tutto ciò, per quello che "Questa E' La Mia Vita" ha rappresentato per il sottoscritto. Con questa pagina io vado soprattutto a saldare un debito, senza pretesa di essere o sembrare completo, senza cercare la condivisione di chi legge e senza chiedere nulla di più.

...un capolavoro, certo. Definizioni di questo tipo si sono sprecate, nell'arco di mezzo secolo. Ma le ragioni, il profondo e paradossale mistero che giustifica il fascino del film di Godard, si nascondono proprio dietro questa semplice constatazione: come è possibile che un film nato dalla contingenza, di fatto la risposta artistica all'inchiesta di un giornalista sulla prostituzione in Francia, sembri ancora una cosa viva e attuale dopo 50 anni? Forse la soluzione è già nel titolo: la "vita", o meglio, il "VIVERE la propria vita". Temi di questo tipo sono nati con l'uomo e finiranno con la fine dell'uomo: lo stesso motivo per cui oggi non è obsoleto interessarsi a Platone, Seneca, Erasmo da Rotterdam o alla saggezza indiana: in fondo si parla di NOI; e quando si parla di qualcosa che ci riguarda, è umano avere sempre le orecchie tese. Semmai il pericolo non sta nel NON parlarne, sta nel parlarne a sproposito: oggi ci riempiamo la bocca con frasi altisonanti tipo "senso della vita" e simili, ma transitano così spesso per la nostra bocca che non ne afferriamo più la profondità. Come è facile scivolare verso il banale, come è facile fare della psicologia spicciola un mezzo di intrattenimento per il pubblico. Qui Godard realizzò la sua impresa, evitando di scivolare: non solo nell'ovvietà del "già detto", ma anche nel giudizio morale sulla prostituzione in cui spesso si cade persino muovendo da intenzioni opposte. Così pose le basi alla grandezza senza tempo del suo lavoro: iniziare dal particolare, da una modesta storia "qualunque", e attraverso di esso sposare l'universale.

Fu rottura, certo, se è vero che il film fa storia a sé anche all'interno della stessa Nouvelle Vague. Il sottotitolo dell'opera, non è un dettaglio, è "Film En Douze Tableaux"; pura segmentazione formale? In realtà, molto di più: ogni quadro è introdotto da una didascalia che prelude alla situazione (o alle situazioni) presentate - è un omaggio al cinema muto, certo, ma sono anche diverse tappe nella vita della protagonista, di un percorso che non è evoluzione ma (terribile) involuzione. Stazioni di una Via Crucis, si è spesso detto a ragione, i momenti di un calvario, i punti salienti di un martirio: tragicamente preannunciato dal quadro su "La Passione di Giovanna D'Arco" di Dreyer (impareggiabile momento metafilmico: è cinema NEL cinema), cui Nana assiste piangendo l'eroina e il suo destino. La scansione in tableaux (ma lo si capisce davvero solo procedendo di quadro in quadro) abbandona strada facendo la freddezza didascalica di cui è figlia, e innesca nello spettatore un processo mentale di cui Godard ha il totale controllo: il distacco che separa regista e personaggio, e a sua volta personaggio e spettatore, è solo apparente; Nana è tutti noi, e tutti noi siamo Nana. Quella che abbiamo davanti è una drammatica verità che prende forma con l'aggiunta di nuovi, ulteriori tasselli.

Godard è l'invisibile artefice, e maneggia la macchina da presa con piglio che più personal/sperimentale non potrebbe essere: gli attori che volgono le spalle allo spettatore, i prolungati primi piani a camera fissa, l'ombra che - complice il bianco e nero - invade la scena e le da forma, come nel quadro dell'interrogatorio al commissariato di polizia; una canzone che suona da un juke-box e che si sostituisce al dialogo, il silenzio innaturale e straniante dei boulevards parigini a rendere ancora più grevi le sagome spettrali che si stagliano ai lati delle strade, le voci fuori-campo per lunghi interminabili minuti, la scrittura stessa (debole, incerta) della protagonista a prendere il posto della parola parlata. In apparenza, allora, è il linguaggio il protagonista di questo film: la parola con la sua forza assertiva, la parola detta senza parlare, la parola suggerita dal retroscena ambientale. In realtà non è così. O almeno, neanche un apparato del genere, ben predisposto e studiato in tutte le sue pieghe, basterebbe a dar conto della grandezza di ciò che abbiamo davanti ai nostri occhi. Manca quel qualcosa in più.

Quel qualcosa in più è Anna Karina. E cioè: probabilmente, la Donna più Donna mai apparsa su uno schermo. Pluri-premiate attrici, dive del cinema, icone dell'immagine filmica: non ho mai visto nessuna recitare come recitava Anna Karina. E parlare come parlava lei, in questo film in particolare. Nulla si può dire in merito a questo, semplicemente abbandonarsi alla potenza assoluta di immagini che rinnovano il miracolo - ancora e sempre, la prima volta come l'ultima che ho avuto di fronte questa pellicola. Nulla può eguagliare la scena del pianto davanti al rogo di Giovanna d'Arco; come nulla può eguagliare il momento in cui, mentre il filosofo passa da Platone ai Tre Moschettieri, lei si volta verso la telecamera e sembra guardarti/parlarti davvero; e in quegli occhi, in quel momento di inconsapevole ingenua filosofia, sembra già riflettersi il senso, il tempo stesso della vita che scorre, come scorre il tempo di un film...

...nulla può eguagliare quegli istanti, nemmeno lo sfondo nero - sipario che cala rapace, assassino, a dire che il film è finito; quasi di fretta, senza neanche attendere il passaggio dell'auto, ripartita senza indugio rombando via lo sparo di pochi - solo pochi - attimi prima.

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