In principio si chiamava Rocky Dennis, come il ragazzo affetto da leontiasi portato al cinema da Eric Stoltz, insieme a mamma Cher che non faceva altro che farsi dei gran tarzani e amare all'inverosimile 'sto poro fijo.

Le prime demo del cantautore svedese sono una fotografia descrittiva di alcune immagini del film: il campeggio dove Rocky spiega i colori alla ragazza cieca, che poi però lei è ricca mentre Rocky non ha un soldo e va in giro con degli Harleyisti ruvidi ma dal cuore buono.

Il primo album di Jens Lekman mi aveva incantato. Era dolce e frusciante, puro low fi: “Oh, you're so silent, Jens”.

Ce credo che era silenzioso, Jens. Un giovane introverso e tenero come un pelouche, malmenato a scuola dai compagni metallari perché ascoltava Morrissey. E quanto si sente Morrissey, nella sua voce, nel suo incedere, nei suoi intenti.

Anni dopo ritrovo Lekman tra sedili gialli di un cinema con in mano una kalimba mentre esegue “A little lost” di Arthur Russell. Quando ascoltavo i suoi brani d'esordio, Black Cab, Pocketful of money e la storiella di Rocky Dennis, tutto così home-made e pieno di melensa melanconia da outsider, io ho puntato qualche spiccio sul futuro di questo ragazzo.

Per carità, era già nella scuderia della Secretly Canadian, mica andava in giro per i risto-pizza a fare le cover di Michael Bolton con i floppy disk nella tastiera Gem. Però in quel marasma che era l'indie nei primi anni Zero, tanti ne ascoltavi e tanti ne dimenticavi. Avevo puntato anche qualche spiccio su Tom McRae, ho acquistato un cd dei Turin Brakes: non sempre ci prendo. E in fondo il nuovo corso di Jens Lekman, ormai adulto e ben prodotto, senza più quei fruscii da sei tracce Fostex, non mi entusiasmava più di tanto: aveva perduto gran parte del suo fascino.

L'anno scorso sui canali social, aveva portato avanti un progetto “Postcard” abbastanza ambizioso di una canzone al giorno; non so come sia andata a finire (una di queste è nel disco), perché una canzone di Jens Lekman al giorno e vai di benzodiazepine ché manco te ne accorgi.

Fatto sta che quest'anno ha pubblicato “Life will see you now” e, charts alle mani, l'album è sempre tra i più apprezzati. Se ne parla, tanto e bene.

L'impressione è che Jens, dopo svariati atti di disturbo dell'umore, tipo che so: piangere perché una coccinella non vola bene e altri picchi ipersensibili che potrebbero ricordare quelle simpatiche strisce comiche che hanno come protagonista Morrissey triste, abbia deciso di andare giù di psichiatra e farmaci e adesso, ripristinata la serotonina, prova a coinvolgere il suo audience con ballate allegre e piacevoli, a tratti tropical-dance, avvalendosi anche di belle collaborazioni, come Tracey Thorn in “Hotwire the ferris wheel”.

Le storie raccontate nell'album sono molto valide, anche nella forma: una narrativa fatta di alienazione contemporanea della generazione “tarda”, tra serie tv, ricordi nostalgici, amici da consolare, limerenze da amore dolce e puro. Mi piace il suo modo di scrivere: ha una poetica descrittiva che da sempre lo contraddistingue; è un po' come ricevere la telefonata dell'amico che deve raccontarti una cosa, mentre tu stai litigando con una agguerrita signora, l'ultima sogliola rimasta sul banco del pesce. Predisposti all'ascolto, questa letteratura in musica, a tratti introspettiva, a tratti “voglio essere felice anche se non lo sono”, può risultare piacevole, anche se a un certo punto ripensi ai metallari che lo corcavano di mazzate e un po' li capisci pure.

Carico i commenti... con calma