Ian Anderson non sembra più lui. Il 1984 è un anno tragico, perché esce 'Under Wraps'. Il carismatico leader dei Jethro Tull, dopo aver prodotto l’ottimo "Broadsword and the beast", compie forse il primo passo falso della sua carriera (che non è "A Passion Play", come molti ingiustamente sostengono, mannaggia!).

"Under Wraps" è il disco peggiore dei Jethro Tull: freddo, troppo tecnologico, poco acustico, poco melodico e soprattutto carente di quel flauto che ha reso grande la band. Molte sono le cose che colpiscono: il co-writing con il tastierista Peter-John Wettese e Barre (che firma per la prima volta un paio di tracce, quale triste esordio!), la batteria quasi tutta elettronica (triste esordio anche per il grandioso batterista Doane Perry!), un sound ben lontano da 'Aqualung', 'Stand Up' o 'Thick As A Brick', fatto di sintetizzatori, campionatori e altre diavolerie elettroniche.
Persino il logo della band cambia (ma questo è carino, dai, ve lo concedo!). Vettese, che già aveva dato un assaggio delle sue doti in 'Walk into light' di Ian Anderson, è il primo ed unico membro dei Jethro Tull di origine italiana e non riesce a tenere alto l’onore di una nazione creativa come la nostra. Non lo discuto come tastierista, ma come compositore.

Ma molti fan, soprattutto i più sfegatati, non smettono comunque di sostenerli: 'Under Wraps' arriva al numero 18 (!) della classifica inglese, mentre gli americani saranno meno clementi, con un misero numero 76. Già dalla grigia copertina si può intravedere il grigiore dei brani. Later that same evening, Radio free Moskow, Paparazzi, Nobody’s Car, Apogee e Astronomy sono pezzi orrendi che si fa fatica ad ascoltare fino in fondo.
Ẻ ufficiale: la canzone più orripilante che i Jethro abbiano mai scritto è General Crossing, un pezzo inutile, che non comunica niente, a parte forse i suoni fastidiosi. Meno peggio risultano forse Automotive Engeneering, Under Wraps # 1, il riff di Saboteur, Heat (con un intro di flauto che promette bene) e l’aggressiva Tundra. Lap of Luxury fu concepita come canzone commerciale e quindi lanciata ottimisticamente come singolo (numero 70 nelle charts). Non sarebbe neanche malaccio come canzone. Ne esiste anche un videoclip, disponibile nella versione rimasterizzata del Cd.

Ma c’è anche un altro lato del disco: una nicchia di vecchi Jethro come piacciono a me e difatti la si trova negli unici due pezzi firmati esclusivamente da Anderson. European Legacy è un pezzo esaltante con un bel cantato, il ritorno della chitarra acustica e un intermezzo di flauto (seguito però dai synth). La perla acustica degna di essere incorniciata assieme a pezzi come Wondering Aloud e Only Solitarie é Under Wraps # 2. Bellissima.
Ma due pezzi non servono a salvare un album a mio giudizio piatto come una sogliola. La produzione di quest’album durerà nove mesi, al termine del quale persino il fedele Martin Barre confesserà di essersi stancato. L’unico ad essere però veramente scontento dell’album sarà il bassista Dave Pegg, non a caso l’anima folk del gruppo durante gli anni ’80.

Si dice che in quest’ album Ian Anderson abbia sbagliato completamente le tonalità dei cantati (ascoltare Under Wraps # 1 per credere), troppo diversi dal suo modo abituale di cantare. Non a caso si prenderà un anno di pausa, per poi ritornare (o forse dovrei dire rinascere) nell’86 con un disco di classici riproposto con l’orchestra e poi nel 1987 con l’ottimo 'Crest of a Knave'. Ma la voce di Ian non sarà più la stessa ed è anche per questo forse che odio questo album.
Paradossalmente, alla fine di questo mastodontico lavoro, Ian Anderson, Martin Barre, Dave Pegg e il batterista Gerry Conway, si ritroveranno a scrivere con David (oggi Dee, sigh!) Palmer la canzone che diviene poi colonna sonora della serie di documentari “The Blood of the British”: l’epica, folkloristica, magniloquente Coronach.

Ma questa è tutta un’altra musica.

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