Mettetevi in una stanza vuota, una grande.

Posizionate lo stereo, e soprattutto le casse.

Spegnete la luce e spingete play.

Scoprirete il suono

Come respirare la prima volta l’aria di montagna.

Come passare la lingua fra i denti dopo la pulizia dal dentista.

Come avere sempre mangiato Cornetto Algida e poi scoprire il gelato di Castiglione (solo per bolognesi).

Come se il suono avesse trovato un mezzo più puro dell’aria per propagarsi.

Le chitarre sono limpide, ma limpide è poco.

Il pianoforte è avvolgente, ma avvolgente è poco.

Il suono ha una forma profondissima, ha corpo, è sostanza e nelle orecchie entra, solletica gli angoli più remoti, stupisce; la stanza tutta entra nelle vostre orecchie colma di strumenti.

State ascoltando questa avvincente novità, questa rivelazione che gli strumenti vi fanno, e nello stesso tempo sapete benissimo che state ascoltando Jim O’Rourke, in ogni esplosione, in ogni piccolissima intrusione in sottofondo (che non passa inosservata) lo riconoscete.

Quando si sente solo la chitarra (e non sono neanche sicura che sia mai da sola) sembra che basti a riempire tutto lo spazio, eppure lo spazio si riempie ancora, si allarga, capace di contenere una serie infinita di suoni perfettamente distinti, che riescono perfino a stridere armoniosamente.

Le orecchie sono piene, siete in una stanza vuota, buia.

Eppure state guardando la musica.

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