Questo chitarrista dalle chiare origini italiane fa parte di una delle più giovani generazioni di chitarristi rock-blues statunitensi: quella di cui fanno parte anche nomi come Johnny Lang, John Mayer ecc. Come al solito i musicisti che si muovono sulla scena rock-blues americana degli ultimi vent’anni sono pressochè sconosciuti da questa parte dell’oceano, o perlomeno qui in Italia (capita che vai in Francia o in Spagna e ti tirano fuori una sfilza di nomi che…). Comunque credo che il soggetto meriti e così ho deciso di recensire questo album che reputo il più eterogeneo tra quelli che ho ascoltato.

Il disco ha una partenza tirata, con un gran brano di puro rock americano appesantito dalle linee hard della chitarra: canzone molto lineare con assolo molto bello e molto tradizionale. A seguire un altro brano abbastanza aggressivo, ma di stampo più zeppeliniano. La terza traccia tradirebbe una natura funky per il riff effettato iniziale, ma si traduce subito in rock anche se più morbido dei precendenti. “Umbroken” prende decisamente una piega verso la ballad, ma è anche quella che, fino adesso ha più elementi blues, grazie agli inserti di tastiera con il tipico effetto Leslie. La title track è un non troppo celato tributo al texas blues del grande Stevie Ray Vaughn (RIP). La traccia numero sei è un’altra ballad molto bella e molto in stile John Hiatt (non so se sia un po’ più conosciuto del chitarrista di cui stiamo trattando, ma credo di sì, comunque è un rocker americano un po’ più stagionato di questo). Il brano successivo è invece leggermente venato di country, ma gli emergenti giri di basso danno decisamente sul blues. La numero otto ricorda vagamente la prima negli stacchi e nell’inizio, ma è più cadenzata e più raffinata nei passaggi di chitarra.
Adesso comincia il bello, perché la nove “Pain and Sorrow” è pervasa da tutto il fascino e la follia del miglior Hendrix. Decisamente la canzone più bella dell’album: oltre dieci minuti di delirio in cui Bonamassa ripercorre tutti i passaggi che hanno reso celebre il più grande chitarrista di tutti i tempi, con qualche virtuosismo in più forse, ma con lo stesso trasporto del mito.
Seguono due canzoni che riprendono il filone blues, ma con ritmiche decisamente più cattive, in alcuni tratti quasi heavy. “Sick In Love” ritorna sulla falsa riga delle prime, ma con spunti di chitarra più funambolici. L’album si conclude con “The Hard Way”, brano che sembra racchiudere al suo interno il riassunto del disco: ci sono momenti acustici e tranquilli, stacchi settantiani alla Blackmore e Page, chorus maestosi e orecchiabili molto americani e momenti di delirio che a volte degrada in modo pesante.

Assolutamente non un capolavoro, ma un disco interessante e bello che rappresenta benissimo la versatilità di un musicista.

Carico i commenti...  con calma