Per quanto mi riguarda i Clash sono stata la più grande rock band di ogni tempo. Ho amato quasi ad egual misura gli U2, ma non li ho mai trovati così innovativi e diretti, ho saputo apprezzare i Rolling Stones e a dieci anni mio papà, a me e mio fratello, ci comprava tutti i 45 giri - originali - dei Beatles, col risultato che oggi mi ritrovo con circa una ventina di singoli dei beatles, che tradotti in euro significano un discreto capitale!
Ma i Clash, quelli no! Loro li ho scoperti da solo, tardi, quasi alla fine, con il video di "Rock the Casbah", che veniva trasmesso in "high rotation" da Carlo Massarini, e da lí risalendo ho scoperto e comprato, una via l'altra quasi tutte le preziose gemme della loro discografia.

Vent'anni dopo esce un disco di Joe Stummer, tra l'altro postumo, potrò mai essere imparziale nel recensirlo?
Il codice di buona condotta de-baseriano me lo impone e quindi cercherò di esserlo.
Cominciamo col dire che questo è un disco BELLISSIMO, INTENSO, PIENO e VERO (alla faccia del codice).

Ad essere onesti, ero veramente titubante nell'acquistare ancora un opera di J.S. (avevo precedentemente comprato "Earthquake Weather" e ne ero rimasto deluso) e per di più postuma, vista la solita scarsa qualità dei dischi postumi, il più delle volte ridotti ad essere opere documentarie quando non esclusvamente operazioni commerciali. Ma anche questa volta la scelta del cuore ha prevalso e soprattutto è stata ripagata.

Bevendosi ancora un altro bicchiere di mescal insieme ai compagni del suo ultimo viaggio tra le note, Joe Strummer ci regala il vero capitolo finale della storia dei Clash, che non era di certo quel "Cut the Crap" da lui stesso successivamente ripudiato nella paternità.
Del resto era da tempo che si parlava di una fantomatica reunion del gruppo, da quando questi un paio d'anni fa furono celebrati tra le cere della "Hall all Fame".

Streetcore si apre con la progressione di "Coma Girl", brano che potrebbe benissimo figurare tra gli spartiti di "London Calling", e la febbre del reggae bianco, che i Clash seppero così ben mescolare con il rock, rivive in "Get Down Moses"; così come nel successivo "Long Shadow" sembra di sentire l'ultimo Johnny Cash prodotto da quel Rick Rubin che anche qui fa la parte del producer, però un po' meno invadente rispetto al suo solito (v. R.H.C.P.), e non è detto che sia un male.
Ma il disco tocca assolutamente le corde del cuore quando con "Arms Aloft" il salto mortale della memoria piomba diritto su "London's Burning", dove una potetente chitarra, non oso pensare cosa fosse potuto essere se l'avesse mai suonata Mick Jones, e i cori, fanno rivivere emozioni sotterrarte sotto la cenere del tempo, assieme all'ascia di guerra mai veramente nascosta dell'«aristocratico antagonista» Strummer.
Struggente e piena è la versione "solo" di "Redempition song" ma, purtroppo per me, troppo uguale alla stessa versione "B-side" fatta da Bob Marley. Infine "Burnin' Streets" è una ballad capolavoro, ma è con "Silver and Gold" che le ultime note e la tristezza per quello che avrebbe potuto essere e non sarà mai più scivolano via lente e lontane.

Il voto è solo 4 perché 5 o forse 6, lo avrei dato esclusivamente ai Clash.

Carico i commenti...  con calma