Non male il nuovo film dei fratelli Coen, ma tutto sommato niente di eccezionale, soprattutto se rapportato al livello medio dei loro lavori. Contiene sicuramente un messaggio interessante sull’industria/arte cinematografica, ma nelle sue tessere narrative l’ho trovato poco accattivante. L’affresco di Hollywood che ne emerge è dettagliato, ricco di spunti polemici, con qualche sferzata ironica ma anche qualche carezza nostalgica. Le storie che vengono raccontate per permettere alla visione complessiva di emergere sono tuttavia davvero poca cosa: poco interessanti, poco divertenti, quasi dei quadretti appena abbozzati, funzionali soltanto a far emergere quell’aspetto o quell’altro dell’industria del cinema nella sua epoca d’oro. I personaggi, ad eccezione di Mannix, sono vere e proprie maschere da commedia. Ben caratterizzate, icastiche, ma dopo i primi 5 minuti progressivamente sempre meno interessanti.

Lo sforzo estetico è notevole, non c’è dubbio: la ricostruzione dello stile cinematografico degli anni Cinquanta è molto buona e va a comporre una sezione a parte del film, quella in cui vediamo spezzoni di pellicole varie, finite o ancora in lavorazione. Una componente diegetica di secondo grado che può affascinare, ma che non sviluppa un discorso particolarmente ricco. Anzi sfiora quasi l’esibizionismo di cultura e tecnica mimetica. Certo, c’è dell’ironia; leggere queste lunghe parti come un omaggio caustico a quella Hollywood è probabilmente l’unica via percorribile, ma francamente la quantità di spezzoni di questo tipo fa pensare più a un gusto quasi feticistico che a un discorso asciutto di omaggio e critica. O meglio: lo spunto iniziale critico si perde un po’ nel gusto per il citazionismo deformato.

Il messaggio c’è ed è chiaro; la realizzazione è un po’ sbrodolata. Le vicende dei vari personaggi sono assai esili e quindi i Coen devono riempire un po’ il film con tanti ricami. Quasi tutti i cineasti al mondo vorrebbero essere in grado di fare dei ricami di questa qualità. La scrittura è come sempre felice e arguta: dà il meglio quando si piega a storie bizzarre come quella degli sceneggiatori comunisti. Quindi i Coen si confermano autori e registi di primo livello, ma se il soggetto in sé è buono e il messaggio ultimo anche, ciò che pare più carente è la struttura della narrazione. Tant’è che in alcuni passaggi i registi tentano di nascondere la poca sapidità delle trame con un montaggio alternato e frenetico.

La critica al sistema industriale di questa Hollywood funziona perché non rappresenta una condanna: se da una parte può dar luogo a esiti strampalati come il cowboy in un film drammatico, dall’altra comunque serve a portare a compimento tante pellicole che fanno sognare le persone normali, quelle che vivono vite detestabili. Quello di Mannix come di altri suoi omologhi è un essenziale contributo all’umanità. Questa dicotomia è la cosa migliore del film, che si rivela importante dal punto di vista concettuale per i Coen, ma formalmente resta un’opera decisamente minore.

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