Mi son chiesto più volte perché, a ciclo pressoché continuo, io senta il bisogno di rivedere questo film. A prescindere dal genere, che chiaramente mi piace.

La prima risposta è che Bill, nella sua melodrammatica follia, mi fa ridere. O meglio: fa da specchio. Questo perché l’uomo annichilito dalla quotidianità, qualsiasi uomo, almeno una volta ha desiderato liberarsi, lasciarsi andare, diventare lucido artefice di una catarsi che ha del catastrofico.

Per dire: sono talmente preso dalla sua performance da tralasciare il contrappeso offerto da un Duval ispirato, che si piazza esattamente all’opposto del protagonista. Dove il primo è istintivo e romanticamente sadico, questi è riflessivo e docile. Finisce per disturbare, il buonismo di Prendergast, ma è indispensabile per esasperare quell’altro.

Il cumulo di immagini iniziale è un viatico che accomuna tutti. Caldo, mosche bramose dei nostri liquidi, frastuono, senso di claustrofobia. E’ curioso come questo scenario pregno di fastidio e oppressione scateni nel protagonista l’istinto della belva braccata che vuole raggiungere la tana, rendendo l’amore per la figlia (reale, pulito per quanto malsano) carburante inestinguibile. Peccato che a rovinare tutto ci sia una moglie sclerotica, paranoica, che proprio non ci sta a riunire la famigliola per l’agognata ricorrenza. Altro elemento di disturbo, per quanto necessario.

Bill si vota candidamente all’autogol, nella scia di sangue e frastuono che genera. Decanta pari opportunità brandendo una mazza da baseball. Punta il dito contro il nazismo, preoccupandosi di mettere al muro chi si frappone nel suo perverso cammino. Il fatto è che lo fa con nonchalance certosina facendosene un beneamato baffetto delle più elementari regole di quieto vivere. Chiede strada gentilmente ma palesando un borsone saturo di revolver. Non gli sfuggono sfumature di contorno che tendono a fornirgli barlumi di realtà: non a caso, il frangente probabilmente più bello del film, lo vede annuire ad un uomo disperato, in sede di sciopero e protesta, portato via coattivamente dalle forze dell’ordine, che ne incrocia casualmente lo sguardo.

Tanto che in corso d’opera, ad ogni crocevia, nasce (anche nello spettatore più disattento) il contrasto supremo: ma noi, che vogliamo ? Per chi facciamo il tifo ?

La risposta, o meglio la soluzione, credo trovi riscontro nel buon senso che alberga nei nostri cuori. Bill e Prendergast vogliono la stessa cosa. Prendersi cura della famiglia, riunirla, dargli forma e sostanza. Per questo Prendergast finisce idealmente per prendere la mano di Bill, accompagnarlo all’uscita, dargli un po’ della sua pena per riportarlo all’umana condizione che lui ha sovvertito: sopravvivere per le persone amate sostituendo il senso di odio per il mondo circostante con la compassione, da sempre comune denominatore che le persone sadiche o violente non hanno nelle corde, perché ci vuole del talento anche per liberarsi, per liberare la parte malata che alberga in ognuno di noi.

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Di  uxo

 Il titolo originale preannuncia di una caduta verso il basso, che porterà al crollo definitivo dell’individuo.

 Risultato è una agghiacciante odissea metropolitana che ci ricorda l’agrodolce sapore dell’ordinaria follia quotidiana.