JOHN CALE - “MERCY” (2023, DOUBLE SIX)
“Cominciamo bene!”, verrebbe da dire, quando un’apertura quasi hip-hop ci introduce al nuovo oscuro universo del Grande Vecchio, John Cale. Quando, pochi secondi dopo, da chissà dove, giunge la voce patibolare dell’artista, ci rassicuriamo, in un impeto affettuoso di agnizione e di identificazione: è lui. Il brano che dà il titolo all’album intero, ha una sorta di missione petroniana: quella di invitarci ad un banchetto dai colori chiaroscurali, dove i locali sfumano in caverne dalle pareti franose e poche luci saettano dal basso verso l’alto, disorientandoci. Un Satyricon post-punk-post-rock-post-tutto. Occorre una certa robusta frequentazione del Nostro per entrare senza troppi timori nell’antro di questo oscuro, affascinante lavoro. Il pulsare retrogrado di una batteria elettronica misura la dimensione a-spaziale di “Mercy” e non ci resta che piombare sul seguito.
“Marilyn Monroe’s legs” è un tappeto elettronico sul quale, attoniti, scivoliamo, lasciandoci alle spalle l’anticamera della creazione di Cale; qui spie intermittenti, “bip” e oscillazioni proseguono nel sadico compito di farci smarrire il cammino; la voce proviene da un indeterminato altrove, ovattata, distorta, anch’essa fluttuante come un neon sonoro. Alla fine una ballata elettronica grattata nello zolfo, da cui a tentoni le note gocciolano come stalattiti sopra un ritmo inquieto, interrotto, frammentario.
Bells ring out
The snow falls
The choir is finishing it's song
Your footsteps on the stairs
Meet at the River House
To say goodbye
To say goodbye (bye)
“Noise of you” assume una connotazione più tradizionale, ma per farsi perdonare, John Cale scrive un testo eloquente e toccante; la struttura è, inoltre, circolare, vagamente ipnotica, consona al pulsare della drum-machine; fin troppo accattivanti le sonorità elettroniche con cui lentamente il brano volge al termine.
Avanti, si passi alla stazione successiva: “Story of blood”. Un piano alla Tom Waits primissima maniera, ci regala il suo benvenuto, quasi tentennando, come se fosse sul punto di mandarci via, di indurci a correre verso il solco successivo; invece percussioni, echi e diavolerie elettroniche trascinano la voce di Cale in una sensualissima danza da serpente; sfreccia davanti a noi, seduce e respinge, inebria e spaventa: c’è posto perfino per un coro non decorativo, ma coerente e disturbante. Finora forse la magia più convincente dell’album. La tentazione di cercare riferimenti ad altri gruppi, ad altri brani è potente, ma nell’ascolto progressivo si viene dissuasi da una corrente incostante e annichilente di originalità e, insieme, di citazionismo sotto mentite spoglie.
“Time stands still” possiede l’arroganza pop di un Art of Noise qualsiasi; ma poi c’è la voce: John Cale è la sua voce; la dolente cadenza del suo melodico canto sghembo e dispari, costringe l’ascoltatore a fare marcia indietro e poi ad accelerare, per poi arrendersi, ancora una volta.
The roses in the garden are growing in the rain
Competing with the poppy for the sun
It's Christmas in the wilderness, spring time in Japan
Monsoons happening everywhere, even in your backyard
“Moonstruck” (Nico’s song) si apre con questi versi: Moonstruck, moonstruck/ Moonstruck, moonstruck/You're a moonstruck junkie lady, staring at your feet…”. La grandezza di questo artista, tuttora sottostimato, si eleva pienamente e ci porta quasi alla commozione; tra le parole e le pause smozzicate, sembra quasi veder fluttuare lo spirito di Nico che s’insinua tra le dita, fra le gambe del tavolo ed esce dalla finestra, lasciando di sé una scia luminosa e dolce. Qui siamo al capolavoro e avvertiamo perfino la magica onda della viola che ci lascia una dolcezza impalpabile tra i denti.
“Everlasting days” scompagina le attese attraverso un canto femminile a cui presto si unisce in un duetto imprevedibile, la voce di John Cale; seguiamo l’indolenza dell’intera composizione, tra intuizioni electro-pop e qualche eco sperimentale, cui l’artista rinuncia raramente. L’intera operazione, nella sua stranezza, riesce a coinvolgere e incuriosire; nel finale alle due voci dominante, si unisce un terzo canto che ci riporta nel girone crepuscolare con cui abbiamo iniziato il viaggio.
“Night crawling” ha un perfetto timing cinematografico: le immagini scorrono davanti ai nostri occhi, ormai assuefatti al chiaroscuro: Orfeo-Cale ci prende per mano e si offre come pattinatore su una pista improbabile dove gli echi onnipresenti contribuiscono ad uno straniamento a cui ci si abbandona volentieri.
Fin dalle prime batture di “Not the end of the world” siamo propensi a gridare, nuovamente al capolavoro; ritroviamo un Cale più riconoscibile e familiare, mentre un meraviglioso tappeto ritmico ripete ciclicamente le proprie frasi, dentro una giostra di suoni e effetti: bellissimo gorgo a cui lasciarsi andare. La struttura potrebbe ricordare vagamente qualcosa dei Portishead, ma è semplicemente una suggestione: qui è John Cale purissimo.
“The legal status of ice” conferma l’impressione che, a dispetto della copertina dell’album impregnata di rossi e di neri, la tessitura cromatica ispirativa sia quella delle infinite declinazioni del bianco-ghiaccio; la freddezza, ovviamente, non ha nulla di distante o di emotivamente glaciale; semmai il brano è sostenuto da un’aura liturgica, sospesa, tribale.
L’album si conclude con due gioiellini incastonati nel diadema: “I know you’re happy” e “Out your window”. Più corrente e prevedibile il primo dei due, un 4/4 senza grandi intuizioni, ma sempre molto godibile e severo, secondo lo stile di Cale. “Out of your window”, invece, partecipa dell’immaginario trio di capolavori dell’intero disco: il pianoforte incalzante dell’incipit apre e chiude il sipario ad un canto meravigliosamente riconoscibile, struggente, dolente, malinconico: un classico.
L’intera fatica di John Cale, all’età di ottantuno anni, lascia emergere la statura ben oltre le vette cui solitamente ci abitua il grande rock: l’aspetto cantautorale qui si mescola alla ricerca musicale, all’azzardo, al lirismo, restituendoci un’opera che riconcilia con la musica prodotta in questi anni. E poi i testi: importanti, intensi, senza confini. Non solo un vecchio amico: ma un vero artista che, a dispetto della sua burbera personalità, riesce a costruire un percorso forse salvifico perfino con la ruvida dolcezza della sua arte.
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