Fuga da Los Angeles, di John Carpenter.

In teoria sequel, in pratica una sorta di remake, di "1997 Fuga da New York", dello stesso Carpenter.

Jena Plissken a sto giro si trova a Los Angeles, anch’essa, come New York prima, divenuta prigione a cielo aperto, per i reietti di una società americana in cui tutto è vietato (da dire le parolacce a fumare).

Anche a sto giro bisogna recuperare qualcosa, finito laggiù tra i criminali, e anche a sto giro il buon Kurt Russel ha poco tempo a disposizione, causa un virus inserito nel suo sangue.

Ingiustamente ignorato dal pubblico e massacrato dalla critica come “un sequel mal riuscito” (è la definizione che troverete dovunque), questo film è quasi un capolavoro.

E’ necessario, per vederlo, aver ben chiaro quello che è "1997 Fuga da New York", un film colorato, esagerato, con gli effetti speciali ridotti al minimo.

Qui  invece, Carpenter ci mostra una Los Angeles cupa che più cupa non si può, con una Jena incazzata che più incazzata non si può, e degli effetti speciali assurdi che più assurdi non si può (volutamente tali; tenete conto che è un film del  1996 dove l’uso del computer era ormai dilagato. Non è un caso che in questo film ogni scena fatta al computer sia resa evidente,  come non è un caso che Jena guidi un sottomarino, che è chiaramente fatto al computer, con una consolle da videogiochi).

Se a New York Plissken aveva dato una speranza al mondo, limitandosi a distruggere l’importante nastro essenziale per la (presunta) pace nucleare, in questo film, dopo aver visto a che punto il degrado umano può arrivare (geniale la scena in cui il nostro viene rapito dai chirurghi estetici, dove le donne sono rappresentate esattamente come ci appaiono oggi le quarantenni dive, più silicone che carne) decide di resettare il mondo. Ovvero, di azzerare qualsiasi tipo di tecnologia presente sulla terra, dalle armi all’elettricità. E mo’ so cazzi vostri. Normale che non è stato apprezzato…

Kurt Russel è immenso, ancor più che nel primo, nel rappresentare un personaggio negativo, un criminale, con una dubbia moralità (la scena del “che ne dite di giocare come si fa a Bangkok?”) che è però comunque superiore a quella dei governanti del mondo.

Tra passaggi di incredibile tamaraggine (la partita a basket), di trash all’estremo del credibile (la surfata) e colpi di genio unici, il film appassiona, non scade mai nel banale, e soprattutto (come ogni film di Carpenter) ha un finale incredibile, che ti fa venir voglia di rivederlo, anche solo per l’ultima scena.

Carpenter stupisce sempre e non delude mai.

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