E' stato detto e scritto tutto di John Ford, uno dei padri della cinematografia americana. Cinquant'anni di carriera, decine e decine di pellicole girate, alcune delle quali sono colonne portanti della settima arte americana. Un discorso coerente espresso soprattutto attraverso il western, "genere fondativo americano" secondo la definizione di André Bazin. I passaggi storici fondamentali della conquista del west da parte dei pionieri, la pretesa di raggiungere la libertà, le lotte contro i nativi, la "legge" che si confronta e scontra con i fuorilegge. Un discorso lungo e complesso, in cui Ford ha unito uno stile austero e innovativo nel cinema americano classico, fondendo settima arte con autorialità e spunti della storia americana. "L'uomo che uccise Liberty Valance", film del 1962 e penultimo western di John Ford, è un'opera che si inscrive perfettamente nella poetica fordiana, in una rilettura crepuscolare e nostalgica del vecchio mito del west.

Libert Valance (Lee Marvin) è uno dei tanti criminali che popolano il west. La cittadina di Shinbone è continuamente preda delle sue pazzie. L'arrivo in città dell'avvocato Ransom Stoddard (James Stewart), segna lo scontro tra due poli opposti: il criminale che usa frusta, pistole e violenza per affermare la propria legge e l'uomo di cultura che segue la razionalità dei suoi studi, colui che non ha bisogno delle armi per esprimere il proprio punto di vista sul mondo. E' un figlio della nuova America, che crede nel valore della scuola e che si improvvisa professore. E' l'annoso scontro tra due mondi antitetici, ma anche una narrazione sulla fine del "sogno" della frontiera: la politica proveniente da est è vista come un principio di corruzione e tutti gli elementi tipici del genere western mancano completamente. L'ambientazione si sposta dalla Monument Valley tanto cara a Ford, per fossilizzarsi sugli interni di un ristorante o la sede di un giornale. Spazio risicato anche per gli scontri a fuoco, limitati alla sequenza dell'uccisione di Valance. Una pellicola che rimugina sul genere stesso, in un processo che per certi versi anticipa ciò che di lì a qualche anno verrà messo in atto, seppur con formule e scelte diverse, da Sam Peckinpah.

"L'uomo che uccise Liberty Valance" è una pellicola con cui Ford rimodula il suo genere. Lo fa mettendo in discussione il sistema dei valori sul quale si è basata la storia del suo paese, non disdegnando frecciatine alla classe politica. Non è un caso se tutti quegli elementi che avevano caratterizzato i suoi western precedenti quì manchino del tutto: assente il conflitto con gli indiani, il tema incontro/scontro, le rapine ai treni e alle diligenze. E' un lavoro che ripensa il western portandolo sul tema del dovere morale, della necessità umana di provare a costruire una nazione lasciandosi alle spalle una volta per tutte la "legge" della violenza. Ma per ristabilire l'ordine (altro tema basilare del western), per porre le basi del nuovo stato di diritto, bisogna muovere dalla violenza attraverso la violenza. Solo questa può eliminare "il nemico".

Elegia di un'epoca di transizione dalla "wilderness" alla "civilization" che forse non è mai stata superata del tutto. Lo sguardo nostalgico e amaro di uno dei pochissimi che possono fregiarsi del titolo di maestro del cinema classico americano. Al di sopra di questo racconto ri-fondativo del western nella nuova formulazione fordiana, un cast monumentale composto da nomi come James Stewart, John Wayne, Vera Miles, Lee Marvin, John Carradine.

Un film fondamentale nel processo evolutivo della cinematografia di John Ford, nonchè una delle massime espressioni del genere western durante gli anni '60. Un vero cult, che andrebbe ampiamente riscoperto.

"Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda."


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