Spesso ci si chiede dell'utilità di parlare dei capolavori, di quelle opere che hanno fatto la storia del cinema, ma lo stesso discorso vale per la musica e quant'altro. Scomodare le pietre miliari può sembrare quasi un insulto ad esse, ma non lo è se il film in questione è "Giungla d'asfalto" (The Asphalt Jungle), pellicola che forse non ha mai trovato quell'affermazione, anche e soprattutto a livello di critica, che avrebbe meritato.

Siamo nel 1950 e John Huston ha già alle spalle sette lungometraggi, il primo dei quali, "The Maltese Falcon", è considerato come uno dei primissimi esempi di noir classico, uno di quei titoli che codificò l'atmosfera del noir negli anni successivi. Non a caso "Il mistero del falco" (1941), "Il fuorilegge" di Frank Tuttle (1942) e "La fiamma del peccato" di Billy Wilder (1944) sono spesso considerati la "triade" che ha lanciato il noir americano classico, genere destinato a fiorire nel decennio successivo. Oltre ad una già consolidata carriera da regista, Huston aveva esordito come sceneggiatore per la MGM e successivamente passò alla Universal, entrando nel mondo del cinema e soprattutto solidificando le basi di quello che sarà il suo futuro cinema, ovvero un legame molto forte tra immagine e sceneggiatura. Anche nella sua ottava fatica registica Huston collabora con Ben Maddow per mettere a punto un plot ispirato all'omonimo romanzo di William Burnett. Ne viene fuori una sceneggiatura di ferro, che non ingabbia però Huston, in grado di reggere la tensione della vicenda anche e soprattutto attraverso una regia che oggi definiremmo "old style", ma che è il punto di forza maggiore del film. Ogni singola inquadratura, dai numerosi primi piani, ai long take sparsi qua e là, rendono "Giungla d'asfalto" uno dei manifesti indiscussi del cinema americano classico. Nello stile di Huston c'è l'impronta dei grandi maestri, da Ford ad Howard Hawks, da Wyler al Raoul Walsh del "secondo periodo". Eppure la vicenda portata al cinema è una tra le più inflazionate e già viste: un criminale appena uscito di galera (Sam Jaffe) cerca uomini per portare a termine un colpo in una gioielleria. I suoi "compagni", dall'ombroso Dick (Sterling Hayden), all'avvocato Emmerich (Louis Calhern), si lasciano convincere dalla minuziosità con cui il dottor Erwin ha organizzato il tutto. Ma durante queste azioni le cose non vanno mai come dovrebbero andare per i rapinatori e da quel momento in poi si sviluppano una serie di "incidenti" a catena che non faranno altro che far precipitare ulteriormente la situazione.

Atmosfera notturna tipicamente noir, con la presenza della "femme fatale" ingovernabile, quella Marilyn Monroe che iniziava a farsi notare nel mondo cinematografico, anche se nel film in questione ha un ruolo non di primissimo piano. Noir che diventa anche poliziesco, sia nella ricerca dei colpevoli della rapina, sia nella "messa al bando" di una polizia che è già corrotta e connivente rispetto al mondo del sottobosco criminale delle grandi città. Due generi "fratelli" che Huston fonda insieme per plasmare una storia di azione e fuga tipica del cinema classico, ma che allo stesso tempo ha la grandezza di non soffermarsi sulla dicotomia tanto cara al cinema statunitense: quella necessità quasi viscerale di rintracciare in ogni situazione i "buoni" e i "cattivi". Nel film di Huston si fa fatica ad individuare chi possa essere definito in un modo o nell'altro, ma di "buoni" se ne vedono decisamente pochi.

"Giungla d'asfalto" è un titolo centrale nella cinematografia americana degli anni '50, nonchè probabilmente una delle vette artistiche di John Huston. Un film molto duro per i tempi, che mescola criminalità e visione morale, guardando a quella giungla d'asfalto come ad una metafora della più generale lotta per la sopravvivenza. In fondo lo stesso avvocato Emmerich, uomo di legge disposto a sporcarsi le mani anche nell'illecito, sa benissimo che "il delitto è solo una forma sinistra della lotta per la vita". Perchè nel film di Huston la poetica è quella del pessimismo, della cupezza dei toni e della fotografia claustrofobica (peraltro splendida e curata dal Premio Oscar Harold Rosson). Una pellicola che spruzza pathos ad ogni singola inquadratura e in cui emerge l'epopea dell'America che tentava di attuare definitivamente il passaggio dalla "wilderness" tipica dell'ottocento e del western, alla "civilization" e al progresso rappresentato dalle grandi metropoli. Gli uomini, in tutto e per tutto, sono sconfitti, annientati. E' il grande cinema di un maestro come John Huston.

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