Nel 1971, dopo aver accuratamente estirpato le proprie radici dal terreno natio, John Lennon, con la ormai immancabile tenebra nipponica, si trasferì a New York dove decise di stabilirvi la carriera solistica all'indomani dell'era Beatles.

Dopo due opere di notevole spessore artistico, accolte con clamore e con una certa positività da pubblico e critica, per una oscura ragione legata ad un improbabile divertissement o agli ultimi colpi di coda di un imprecisato effetto stupefacente, crollò, grazie soprattutto alla fattiva collaborazione dell'erinni del sol levante, con un lavoro eufemisticamente mediocre. Nulla a togliere al talento di Lennon che pur stridendo con il terrificante contributo prevalentemente vocale della compagna, riesce comunque a regalare qualche sospiro d'arte. Quel tanto che basta per rendere l'album insufficiente e non irrimediabilmente pessimo.

Il brano d'apertura, l'appassionato blues con fiati e vorace sentimento, "Woman is the nigger of the world", sembrerebbe un valido incipit se non si spegnesse con i tre brani successivi, farciti di giaculatorie della giapponetta, abili a distruggere anche il contenuto testuale di indubbio rilievo e interessante contesto. Si passa ad un'escursione nella megalopoli statunitense, di cui, insieme al primo brano, in tutta onestà, preferisco le versioni "live" registrate al Madison Square Garden lo stesso anno.

Dal doppio tributo ai civili irlandesi uccisi dall'esercito inglese nella domenica di sangue, Lennon incrementa il suo attivismo politico in musica e ancor di più l'attenzione della CIA e le cimici dell'FBI, attirate da qualche anno tra bed-in, le mura del mondo tappezzate dai manifesti "War is over - If you want it" e la sfilata per le strade di New York urlando un eloquente invito a delegare il potere al popolo. Ovvio che ciò bastò per far sì che la celebre democrazia americana, ancora imbevuta del più idiota e senile maccartismo, vi appose il marchio di filocomunista e quindi di "nemico del popolo" obnubilando le intenzioni ostinatamente pacifiste del cantautore.

"John Sinclair" è dedicata all'omonimo poeta, consumatore di marijuana e attivista politico delle "Pantere Bianche", un movimento culturale antirazzista. Venne condannato a due lustri di galera per aver donato due spinelli erbivori ad una poliziotta in borghese dell'antidroga. Le proteste di diversi artisti schierati a sinistra e l'incostituzionalità del reato nello Stato del Michigan, ne provocarono il rilascio. "Angela" è per Angela Davis, militante del Partito Comunista degli USA e attivista per i diritti dei neri. Venne incarcerata per una condanna non rispondente ai fatti realmente verificatisi e in seguito scagionata, attirando l'interesse di diverse personalità dello spettacolo, della politica e del libero pensiero, che contribuirono ad evidenziarne lo spessore e i motivi della sua contestazione.

Il resto, tra i bonus, oltre ad una versione non proprio eccelsa di "Cold turkey" e qualche pezzo sconclusionato scritto con Zappa è nettamente inascoltabile. Non immagino come si sia potuto sopportare gli ululati di Yoko Ono di cui non sono mai riuscito a comprenderne il nesso. Brani caratterizzati da un insopportabile lamento che spazia tra una cagna in calore ed una sorta di Axl Rose con le mestruazioni e l'esaurimento nervoso.

E pensare che non questo non è l'unico album a contenere tali orripilanze. Appare perciò strano che dopo due colossi come "Plastic Ono Band" e "Imagine", si sia tornati indietro inserendo le caratteristiche principali di album (?) come "Two virgins" che non mi azzardo neanche ad ascoltare. Se si pensa che quella megera riuscì a rovinare anche "Double Fantasy", allora...

Album da due pallini ma solo di stima, che tra i deterrenti ha anche, forse, il disonore di una copertina scopiazzata da "Thick as a brick" dei Jethro Tull, uscito qualche mese prima.  

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