Terza prova discografica per i Journey e terzo competente, ma mediocre rimestaggio di idee e di spunti in ambito hard rock melodico, con retrogusto progressive/fusion. La banda si ripropone per l'ultima volta a quartetto, stavolta intenta anche a far la conta per chi possiede la voce solista più efficace: sinora aveva cantato tutto il tastierista Gregg Rolie, in forza delle sue referenze con Santana (è sua quella voce che intona immortali brani quali "Black Magic Woman" e "Oye Como Va"), ma a questo punto si prova anche un'alternativa, facendo interpretare qualche canzone al chitarrista Neal Schon, che nel frattempo ha preso serrate lezioni per migliorarsi. L'emissione vocale di questi è meno potente, ma più gradevole ed estesa rispetto al collega; siamo comunque lontani da uno standard in grado di poter far autenticamente eccellere i Journey nell'ambito del melodic rock.
Fa un passetto in avanti (nel senso che è episodico, non generalizzato) il processo di miglioramento dei suoni e della produzione, ma soprattutto della consistenza e sintesi degli arrangiamenti. Rolie soprassiede quasi del tutto a quei vorticosi assoli di sintetizzatore monofonico, così poco espressivi; il socio Schon prova in qualche occasione a contenere i soli di chitarra a lunghezze normali, canoniche per del rock duro che vuole ammantarsi di accessibilità pop e interessare molta più gente dei soliti musicisti od aspiranti tali e dei fanatici del virtuosismo.
Stavolta si parte con una limpida ballata, a titolo "Spaceman": una scelta col senno di poi quasi simbolica... il gruppo ancora non lo sa ma nel suo futuro ve ne sarà una quantità industriale, di brani lenti. La chitarra di Schon sceglie con cura ed economia le note da prendere, diventando all'istante molto più fascinosa di quando si lascia andare a lunghe tiritere su e giù per la tastiera. Ross Valory si dimostra ancora bravissimo bassista, ma la ritmica continua ad avere qualche pecca: qui ad esempio Aynsley Dumbar è troppo rigido sul charleston... A dispetto del suo nobile pedigree (Mayall, Zappa, Bowie e Reed sin lì, poi Jefferson Starship e Whitesnake fra i tanti del suo futuro post-Journey ), ho ampie riserve su questo batterista inglese giramondo... e non sono il solo, giacché qualche tempo dopo il nuovo cantante Steve Perry convincerà gruppo e manager a buttarlo fuori, lamentando mancanza di groove nel suo stile.Vero!
Molto valida anche la seguente "People", la migliore del lotto, strutturata su un profondo, elegante ed efficace arpeggio di chitarra tutto in levare ed affidata alla voce senza infamia e senza lode di Schon. Al terzo episodio "I Would Find You" torna ahimè a guaire il minimoog, seppure solo per un'intro, facendo ripiombare i Journey nel genere progressivo e fusion, che beninteso sono ottimi generi, però suonati da altri. La stessa cosa succede più o meno nello strumentale messo verso la fine "Nickel and Dime"... sono gli ultimi bagliori psichedelici e in qualche modo snob di una banda che si inquadrerà invece, in tutto il resto di carriera, per una spiccata ruffianeria ed accessibilità popolaresca, buona anche per gusti pacchiani ed edulcorati, il tutto per fortuna associato ad eccezionali exploit melodici, strumentali e canori, nonché ad un'indubbia peculiarità stilistica che li proclamerà riconosciuti caposcuola.
Il resto di questo disco non fa comunque presagire tutto ciò e continua a offrire poco altro che fragorose jam session ripiene di note di chitarra in rapida successione, parti cantate scontate e scolastiche, innaturale e forzata grinta. Siamo alla vigilia di una doverosa svolta, la più importante di carriera perché non ci sarebbe stata chance commerciale per un quarto album strutturato in questa maniera.
Il successivo "Infinity" sarà invece opera di ben altra pasta... ma non ne scriverò, perché qualcuno lo ha già fatto qui in precedenza, passando invece ad alcuni degli episodi successivi, quelli ancora non trattati da alcuno.
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