Quanto possiamo fidarci delle nostre percezioni?
Il film inizia con una scenografia rubata ad un “ Weekend Tranquillo di Paura”.
Nel cuore selvaggio dell'Oregon, una donna ferita cerca disperatamente di sfuggire a un predatore implacabile. Ogni minuto che passa la sua forza si affievolisce, mentre l'uomo che la insegue sembra avere una missione precisa: catturarla. La memoria cinematografica, la memoria stessa, la percezione, può essere tratta in inganno, si scoprirà un po' più avanti che questo è il punto. Ma siamo sicuri chi è davvero la preda? E chi il cacciatore?
Diretto da J.T. Mollner, Strange Darling è un thriller psicologico che si sviluppa in sei capitoli raccontati in modo casuale, nell’intento di ribaltare il nesso logico con il quale siamo abituati a interpretare questo genere di film. Quello che inizia come un incontro casuale tra due sconosciuti si trasforma rapidamente in un incubo, dove nulla è come sembra. La tensione cresce mentre passato e presente si intrecciano in un gioco di specchi psicologico, lasciando aperta una domanda inquietante: quanto possiamo fidarci delle nostre percezioni ?
La partitura in 6 capitoli non consequienzali è l’artificio di Mollner per far implodere la struttura filmica ed assecondare la volontà del regista, di rovesciare il ritmo preimpostato e lasciarsi andare al casuale battito del tempo, ansimante e individualista. La logica viene sopraffatta dall’emotività ed abbandona la conformità della cronologia del tempo.
Nel cuore silenzioso dell’Oregon, tra le fronde immobili e le strade deserte battute solo dal vento e dalla colpa, si muovono due figure: lui e lei.
Lady e Demon. Ma non è Disneyland.
Due archetipi, due entità che si muovono in quello spazio narrativo dove il carnefice e la vittima smettono di essere ruoli fissi e diventano maschere intercambiabili. Dostoevskij avrebbe sorriso nell’osservare questa dinamica ambigua: chi è il colpevole, quando l’innocenza stessa diventa sospetta? E Thomas De Quincey, celebratore dell’assassinio, avrebbe trovato qui un'opera degna del suo elogio disturbante.
Il film gioca sulle nostre abitudini, sulle nostre catalogazioni, sui nostri files archiviati, sulle simmetrie e sulle inversioni. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni respiro tra i due protagonisti si carica di una tensione indicibile. Non è solo thriller velato di ambiguità, si tenta di rimpolpare la modernità di antico, anche se l’esperienza non parrebbe completamente riuscita, con echi di tragedia classica in salsa tarantiniana. In Lady si intravedono, ma alla lontana, le ombre delle eroine byroniane, segnate da una bellezza stregata e da un dolore mai confessato. In Demon invece c’è l’eco lontano di un Mephistopheles contemporaneo, ma meno lucido, più animalesco, guidato da una pulsione cieca alla distruzione.
Ma ciò che rende Strange Darling leggermente più perturbante della piattezza dei thriller contemporanei è il modo in cui la narrazione smonta l’idea stessa di predatore e preda. Come nei racconti di Edgar Allan Poe, il male non è fuori, ma dentro; non ha un volto specifico, ma abita le pieghe dell’intimità, si nasconde nei dettagli più quotidiani. Come scriveva Patricia Highsmith, “non c'è niente di più inquietante che scoprire la normalità del male”. Strange Darling fa tutto questo però non in modo naturale, seguendo una vera logica della normalità del male, ma forse spinto da un senso di snobismo e scarsa omologazione con le attuali e scontate produzioni cinematogafiche sul tema.
Anche la natura qui diventa personaggio. Non è un semplice sfondo, ma uno specchio deformante della psiche. I boschi, le strade abbandonate, le casupole in legno scricchiolante: tutto partecipa al dramma, tutto osserva, immobile, il disfacimento di due anime già in stato di dissoluzione. L’intera ambientazione è carica di quel sublime gotico che troviamo nei romanzi di Ann Radcliffe o nelle visioni allucinate di Shirley Jackson. Forse è un caso od una coincidenza, ma questa credo sia uno dei pochi aspetti veramente affascinanti del film.
Alla fine la stessa violenza non è mai esibita come fine a sé stessa, ma diventa linguaggio, sintomo, sogno distorto. I sei capitoli scomposti del film non confondono ma guidano come in un rito d’iniziazione. Come essere rapiti e bendati trascinati in un luogo misterioso : peccato che quando ti si viene tolta la benda il senso di fiction è ancora più forte e tangibile rispetto a prima. Come in tutte le cose montate ad arte e che fluide svolazzano indisturbate sopra le nostre teste, non si vuole spiegare, si vuole destabilizzare. È il trauma che detta il montaggio.
E così, quando il film si conclude, non resta un senso di chiusura, ma una ferita aperta. Non c’è catarsi. Il male non viene vinto, né glorificato. Viene riconosciuto, semplicemente. Come qualcosa che fa parte del tessuto stesso dell’esperienza umana. Buona l’idea di fondo, ma l’applicazione resta latente.
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