C’è un’età che gli Dei ci invidieranno per sempre e che, da sempre, alla biliosa fissità dei loro occhi rappresenta il vero, grande, inaudito privilegio concesso agli esseri umani, l’età dei trasalimenti repentini e degli stupori smodati che squarciano le giornate con la potenza dello sguardo di Van Gogh che emerge da uno dei suoi autoritratti, la prelibata leccornìa che non possiamo gustare senza che la vita non ce ne presenti in seguito il (salatissimo) conto.

Quando anch’io sguazzavo in quell’acqua sorgiva volgarmente detta pre-adolescenza, il pranzo domenicale si faceva da mia nonna assieme a tutto il parentado (o almeno a tutto quello reperibile).

Adoravo quella sua casa colma di soprammobili, di utensili, di gingilli che già allora (fine anni ’80-primissimi anni ’90) erano decisamente fuori moda, adoravo lei e la sua energia che aveva un non so che di picaresco, quella sua dolce fermezza di donna che si rifiutava di stare al passo coi tempi e che aveva la certezza che il solo modo di fare bene alcune cose fosse, indiscutibilmente, il suo.

Non sono in grado di restituire con la penna lo sguardo con cui, un giorno, fulminò mia madre rea di averle portato un pacchetto di caffè già ridotto in polvere: potrei dirvi che vi si leggeva una specie di compassione amorevole verso sua figlia che aveva commesso la più risibile delle sciocchezze, ma sarebbe solo una pallida trasposizione.

No! Per mia nonna il caffè andava prima comprato in chicchi, poi sminuzzato con l’apposito macinino e solo alla fine preparato nella caffettiera. E non era solo una questione di gusto, ma si trattava di rispettare la scansione temporale di un rito che, saltando un passaggio, avrebbe altrimenti perso tutto il suo significato.

Dovevate vedere la cura che ci metteva nel girare quella manovella, dovevate sentire come al primo sorso, strabuzzando un pochino gli occhi all’indietro, immancabilmente sentenziasse: “Sì, l’é gnì propi bén” [traduz.: “Sì, è venuto proprio bene”].

Leggendo “Le Diaboliche” ho pensato a mia nonna, tra le pieghe del libro ho riconosciuto le rughe che le solcavano il volto.

Immaginate un irriducibile monarchico costretto a vivere in un’epoca in cui imperversino i dogmi democratici, un sedicente “Moralista cristiano” morbosamente attratto dalle situazioni scabrose e scosso da furori apostati, un raffinato dandy parigino che strizzi l’occhio agli usi e costumi di soldatacci bonapartisti, uno strenuo difensore della tradizione aristocratica vista come lo scenario perfetto in cui rappresentare le passioni più sordide. Se riuscite a immaginare tutto questo, siete sulla buona strada per capire di che pasta sia fatto Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly.

Ideale anello di congiunzione tra lo sferzante sarcasmo di un Villiers de L’Isle-Adam e le pretese redentrici di un Léon Bloy, non aveva, del primo, la stessa modernità del senso dell’umorismo e aveva, rispetto al secondo, un gusto molto più spiccato per il grottesco.

I 6 racconti de “Le Diaboliche” sono certamente le sue creazioni più rappresentative e sono state completate nel 1874 (all’alba dell’integralismo Naturalista propinato da Zola) quando Barbey d’Aurevilly aveva la bellezza di 66 anni.

Che l’esposizione sia in prima persona o che avvenga attraverso le parole di un attempato gentiluomo, di un ufficiale a riposo, di uno sprezzante medico materialista, il nostro autore utilizza immancabilmente l’escamotage del flashback e lo usa (da buon burbero eccentrico che non sopporti più nulla della propria contemporaneità) da un lato per ambientare le storie in un tempo (la prima metà dell’800) che ama con tutto sé stesso, e dall’altro lato per far sì che lo possa paragonare al suo presente non lasciandosi mai sfuggire l’occasione, non appena se ne presenti il destro, di lanciare le sue bordate anti-liberali.

Il nocciolo dei racconti di Barbey d’Aurevilly è dunque narrato nello stesso fondale in cui Balzac narrava i suoi, ma, mentre i due condividono la stessa passione per le dettagliate descrizioni del mobìlio e degli interni dell’epoca, il carattere “archetipico” che il geniale autore della “Commedia Umana” conferiva ai suoi personaggi, si perde completamente con Jules-Amédée a cui interessano solo casi eccezionali.

Ma chi sono queste diaboliche?

Sono donne che hanno (o suscitano) passioni incontrollate, che hanno (non a caso) un potere quasi luciferino, un’abnorme, una deforme anomalìa del carattere o del sangue che può portare esse stesse (o chiunque si lasci irretire dal loro fascino) alla distruzione fisica e morale.

Barbey d’Aurevilly le adora queste sue creature, le ammanta di un mistero così fitto, le tratteggia con una cura così esasperata e con dei colori così calibrati, che viene da chiedersi se tutte loro non siano altro che i suoi sogni proibiti repressi per troppo tempo nell’animo e inconfessati persino a sé stesso.

C’è da dire che, a volte, questo vecchio pirata delle lettere si fa prendere un po’ troppo la mano e delinea situazioni talmente grottesche da risultare, più che diaboliche, involontariamente comiche (in fondo, la Thérèse Raquin di Zola, molte delle donne di Maupassant o persino l’Emma Bovary di Flaubert, appaiono molto più oscure e terrificanti proprio perché mosse da intenzioni più banali e materialiste).

Ma non lasciatevi ingannare, dietro la patina di stravaganti iperboli, di esagerate bizzarrìe, di sconcertanti imprevisti, si nasconde il poderoso incedere del cavallo di razza. L’abilità con cui (dopo mille divagazioni dell’estro infervorato) conduce il lettore all’acme dei racconti è da manuale e somiglia ad una labirintica infilata di stanze che, in un castello, bisogna percorrere se si vuole raggiungere la sala del tesoro. Le sue pagine sonanti e vivide che si rapprendono in chicchi sintattici dall’aroma inebriante i quali vengono in seguito polverizzati da raffinatezze qualificative disseminate in periodi pregni di riottosa eccentricità, somigliano a un buon caffè forte, di quelli che non se ne fanno più.

Io me lo vedo il buon Jules-Amédée al suo vecchio scrittoio in stile Primo Impero, me lo vedo mentre termina uno dei suoi racconti, mentre riguarda per un attimo l’ultima frase e poi mormora tra sé e sé qualcosa del tipo: “Sì, l’é gnì propi bén”.

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