"Il mio amore è bianco e viola lutto" scrisse Jules Laforgue. Del resto la casistica del complesso edipico ammetterà pure qualche piccola variazione alla regola e, se è vero che ognuno di noi è unico e irripetibile, perché mai adombrarsi più del dovuto se l'inconscio di un poeta desiderava sì la morte del padre, ma solo per contemplare castamente il corpo della madre?

C'è chi dice che in quella massa incandescente, sfrigolante e indistinta volgarmente chiamata adolescenza i tratti essenziali del nostro carattere vengano forgiati e plasmati in un metallo, in una forma e in una direzione ben precisa nel momento in cui si tuffano nelle gelide acque di certi giorni e di certi momenti catartici. Insomma, quando siamo feriti da determinati traumi.

E, siccome è risaputo che non esistono cause specifiche che infallibilmente deflagrano nel trauma, poco importa che questi accadimenti siano particolarmente cruenti o pirotecnici. Ciò che fa tutta la differenza è come vengono vissuti, il peso specifico con cui si riverberano nella nostra sensibilità che risulta più facilmente impressionabile quanto più è ancora scevra da tutte quelle difese somministrate dall'incallimento emotivo della maturità.

Mi si dirà che tutto ciò è solo una boutade semplicistica e schematizzante, mi si opporrà la considerazione che certe cose si superano, che da certe cose ci si evolve: vero, verissimo. Resta però il fatto che tutti noi abbiamo dovuto fare i conti solo con alcuni traumi (e non con altri) e che sono solamente alcuni (e non altri) che abbiamo eventualmente superato e da cui ci siamo eventualmente evoluti.

Nel caso di Laforgue è presto detto: uno dei fratelli maggiori di una nidiata di undici figli, adolescenza passata nella rigida disciplina di un collegio in cui era stato confinato per non sovraffollare il focolare domestico e madre morta di parto del dodicesimo - e fatale - passerotto.

Il senso di abbandono, l'orrore per la sofferenza che le tentazioni carnali portano con sé e il rifiuto della libido come ceralacca che sigilli il rapporto uomo-donna saranno il topos della sua produzione poetica.

Non si può negare che nelle liriche di Laforgue ci sia più di un filamento di DNA in comune con quelle di Baudelaire, ma il male di vivere del buon Jules non ha quella lascivia equivoca, quell'epidermide rancida e sozza che impiastra di sangue e sperma le pagine del re dei maudit. Lo spleen di Laforgue è piuttosto - a detta dello stesso autore - "eunuco e freddo".

I suoi versi saltellano per i boschi della provincia e atteggiano la bocca a un grottesco rictus gallinaceo ogniqualvolta scorgono il sole - simbolo dell'insaziabile sensualità paterna - soffocare nel suo stesso sangue nell'ora del tramonto in una sorta di sublimazione degli istinti parricidi del poeta.

Giunge finalmente la sera e con lei la luna: la madre che Laforgue avrebbe sempre voluto. Schiva, pura, sterile, che sin dall'alba dei tempi ha rifuggito ogni contatto con le luride carezze diurne. Un altare sacro, un Ideale incorruttibile che il poeta venera nelle segrete stanze della sua pudicizia.

Queste premesse mi sembravano doverose per fornire una chiave di lettura ai sei racconti di queste "Moralità Leggendarie", capolavoro in prosa di Jules Laforgue.

Sordida congrega di anestesisti che addormentano il paziente per poi strappargli il cuore di straforo, adunchi usurai che prestano spiccioli di felicità ipotecando vite umane: "lavorare", "lavare", "cucinare", "produrre", "progredire", "consumare"... Che voi siate maledetti! Maledetti! Verbi che all'infinito tormentate le esistenze di ogni generazione presente, passata e futura: io vi maledico!

Ecco, se dovessi pensare a una specie di dichiarazione d'intenti che qualifichi il comune sentire di ogni adepto del Decadentismo francese di fine '800 sarebbe una cosina di questo genere.

Provate a leggere i mirabolanti stravolgimenti sensoriali sperimentati dal protagonista del romanzo "A Ritroso" di Huysmans o il nichilismo sarcastico che permea le pagine dei "Racconti Crudeli" di Villiers de L'isle-Adam e poi ditemi se sono molto lontano dal nocciolo della questione.

Solo che per Laforgue tutto questo non era abbastanza. Non voleva fare a pezzi solamente i pilastri che reggevano gli usi e i costumi della sua contemporaneità: voleva toccare l'intoccabile, modificare l'acquisito, rivisitare il mito.

E dunque tra esotismi oppiacei che ricoprono con una nebbiolina lattiginosa la narrazione degli eventi, tra gracidanti tirate filosofiche che saltellano tra gli acquitrini dell'esistenza in evidente stato di ebbrezza e tra dialoghi intrisi di un forsennato umorismo fin de siècle che declina molto spesso in nonsense sghignazzanti i protagonisti di queste pagine sono personaggi entrati nel canone di leggende popolari e letterarie. O meglio, l'urgenza di Laforgue è piuttosto quella di raccontare le loro "storie d'amore".

In alcuni dei racconti il poeta mantiene una qualche flebilissima aderenza alla "filologia" del mito (seppur deformata dai funambolismi della sua penna), ma, nella maggior parte dei casi, la leggenda viene totalmente stravolta e piegata alle esigenze di Laforgue (particolarmente gustosi risultano gli episodi di un Amleto che abbandona i propositi di vendetta per seguire le sue velleità drammaturgiche e un'Andromeda che scaccia Perseo perché infatuata del mostro marino).

E quali sono queste esigenze? C'è quella parolina nel titolo del libro - "moralità" - che rimanda a un'intenzione edificante e che si riallaccia al bizzarro rapporto di Laforgue con l'altro sesso di cui parlavo all'inizio.

Ogni "coppia" presentata nei racconti è sfumata da un alone di castità, di sterilità e di morte che è la conditio sine qua non per trasformare una triviale storia d'amore in una leggendaria parabola. Lungi dallo struggimento dei Romantici, Laforgue vuole dimostrare che l'unica Bellezza perseguibile è quella di un amore irrisolto, asessuato, infecondo.

Ma il poeta, molto spesso, sembra prendere le distanze e vuole mantenere un certo distacco dai suoi demoni conducendo il suo paradosso con un'ironia fulminante e disincantata e adottando soluzioni al limite del metaletterario (con Lohengrin ed Elsa che, consapevoli di essere pure invenzioni, si chiamano tra di loro con l'appellativo di "personaggi").

Pensate ai preziosismi linguistici, ai doppi e tripli fondi sintattici, agli schizzi madreperlacei del Flaubert dei "Tre Racconti" centrifugati dalla fantasia debordante e dalle sperimentazioni inesauribili di un dotatissimo prestigiatore della parola. Ecco il Laforgue di queste "Moralità Leggendarie".

Il libro fu pubblicato nel 1887, pochi mesi dopo la morte del poeta a soli 27 anni. E questi racconti, fecondati dalla penna e partoriti dall'immaginazione di Laforgue, realizzarono l'Ideale del loro autore. Uccisero il padre e contemplarono per l'eternità la candida luce marmorea della tomba della madre.

Sì, l'amore che spira da queste pagine è decisamente bianco e viola lutto.






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