KZ/Selektion 1: Buchenwald.
Daniella era stata posseduta dalla Musa della Confusione. Rimase a lungo a guardare finché l'immagine di Harrik, suo fratello, non scomparve, forse per sempre. L'estate del 1939 era sul finire, stava per partire in gita scolastica da Kongressia, la sua città, nella quale non sarebbe più tornata. Sulla piazza del mercato di Yablova furono tutte vittime di un rastrellamento. Vide la testa sfondata di Viernik, il suo insegnante di storia, il direttore di ogni cosa. Per utile combinazione riuscì a sfuggire a quel sequestro e a raggiungere a caso il ghetto di Cracovia, dove fu raccolta da una famiglia amorevole e le fu concesso di lavorare in una fabbrica di tessuti e calzature. L'androne era già popolato da un numero impressionante di ombre. Le strade erano morte e oscure. Il coprifuoco sovrastava quel ghetto come una coperta nera. Nel buio, le ombre erano mute, rese tali ognuna da una sua pena segreta. Lì, nell'androne, l'oscurità era diversa, respirava affannosa, su quelle scale.
Sulla destra si apriva la sala di taglio. La gente spariva da quel posto senza lasciare traccia e non se ne sentiva più parlare. Nessuno sapeva dove fosse andata a finire la gente che aveva indossato quei vestiti sui quali si lavorava, e dopo soltanto qualche ora sarebbe stata completamente dimenticata. Nessuno sapeva cosa fosse Auschwitz, nessuno sapeva cosa fosse un campo di lavoro, nessuno sapeva a cosa si stesse lavorando, nessuno si permetteva di chiedere cosa si stesse costruendo nelle altre fabbriche essenziali ai fini della guerra.
L'arrivo di un diluvio, un rovescio. L'ira di Dio.
Uno scopo che soltanto la Gestapo conosceva. Tutto era Confiscato dallo Stato.
C'era spazio finché se ne voleva, adesso, ai tavoli dei tagliatori, e le zone di luce che si aprivano tra un operaio e un altro riempivano le loro anime di angoscia. Cominciavano a rendersi conto, all'improvviso, della natura dei materiali che venivano utilizzati, tagliati da molte paia di pantaloni rigati, in tutto e per tutto uguali a quelli che indossavano loro. Al tavolo ogni tanto qualcuno si arrestava improvvisamente, per un attimo solo. Quegli abiti sembravano tuttora indossati da creature viventi e sembrava che si trattasse di uomini, di uomini e donne come loro. Fasci luminosi si affondavano nel ghetto, mettendo a nudo la paura. Labbra serrate per tenere dentro il terrore, mascelle inferiori che si agitavano in modo convulso, dalla bocca parole sconnesse e appena comprensibili in quanto tali. La paura, trattenuta troppo a lungo, spesso prorompeva in scariche incontenibili di diarrea. Nel cuore della notte era la morte che bussava per l'entrata.
La milizia ebraica li portava via tutti, ogni età e ogni sesso, tutti i corpi e le anime, una schiera ubbidiente e macabra di cadaveri ancora inconsapevoli che viaggiavano volontariamente uno dietro l'altro verso la loro futura fossa comune, tutti in mute processioni notturne.
Tedek era il figlio di Vekve il lituano, aveva abbandonato il ghetto per lei. La sua ossessione fu come riuscire a superare Beskidian per raggiungere la frontiera slovacca e farle raggiungere la Palestina, ma in realtà non era riuscito a lasciare il ghetto, era stato catturato. Menashe, il fratello, era stato eliminato. Poi il padre di Shlamek. I militari lo avevano afferrato e con dei ferri al calore bianco gli avevano marchiato la parola Jude sulla fronte e un Sieg Heil sul petto. Poi lo avevano lasciato uscire dal suo appartamento per fargli esibire quella deturpazione. Come fosse stato naturale che quelle parole dovessero sanguinare. Allo sportello dove si distribuiva gratuitamente la minestra le grida salivano fino al cielo. La fame accomunava una gigantesca massa umana. Ogni volta che la Gestapo chiedeva un carico di ebrei da deportare, lo Judenrat metteva per prima cosa le mani su quelli che vivevano del rancio distribuito gratuitamente. Chi era riuscito a restare nel ghetto aveva messo le mani sulle fortune dei parenti portati ora via. Gli ebrei erano diventati di colpo generosi, alcuni di loro sembravano aver abbandonato la loro stereotipata avarizia. Lo spaccio della sartoria faceva affari: piatti sopraffini, birra e cianuro di potassio. La merce più ricercata, adesso, era proprio il cianuro. Chiunque l'avesse avuto in tasca, sapeva di poter continuare a mangiare la torta di ricotta, lo spaccio era diventato l'anticamera di un bordello. La gente vendeva tutto quello che aveva, spendeva tutto quello che aveva, nessuno si preoccupava più di accumulare per il futuro. I cristiani si erano messi ad acquistare qualsiasi cosa dagli ebrei, tutti attendevano avidamente le occasioni dai commercianti del ghetto. Compravano le reliquie di altre vite.
Il Dulag aveva la capacità di affogare la sofferenza umana. C'erano tante ragazze di passaggio lì dentro, tra loro molte figlie di privilegiati che da sempre avevano avuto il mezzo di avvalersi della corruzione per deviarsi da situazioni avverse, ma lì dentro nulla avrebbe funzionato. Il Dulag era la fermata intermedia tra il ghetto e la morte. Fella, della città ebraica di Radno, non era una privilegiata, anche lei avrebbe transitato per quell'edificio. Quando anche lei era stata confinata in un centro di Cracovia, la notte la trascorreva nel quartiere generale della milizia. Il mattino faceva ritorno a quelle stanze spoglie in cui era stata relegata con una forma di pane, o con qualsiasi altra cosa che avesse rimediato, e distribuiva a tutti senza chiedere niente in cambio. Non voleva imporsi a nessuno, non chiedeva niente a nessuno. Fella era una brava ragazza, aveva una personalità d'acciaio, chiedeva soltanto che la lasciassero dormire in pace. La notte precedente quei bastardi non l'avevano lasciata tranquilla un solo momento. Cani dello Judenräte. Santa Madre di Varsavia.
KZ/Selektion 2: Theresienstadt.
Ka-Tzetnik fu un enigma. Yehiel Feiner/Yehiel De-Nur conosciuto anche come Karol Cetinsky/Karl Zetinski fu Ka-Tzetnik 135633 (Sosnowiec, 1909 – Tel Aviv, 2001).
Accusato da Hannah Arendt in Germania di spettacolarizzazione megadrammatica, da altri in Israele di produrre letteratura di genere stalag a buon mercato troppo poco sofisticata e indicato da qualcun altro ancora, all'estero, di essere il precursore della nazisploitation, ovverosia l’irresistibile fascinazione del male contro l’immensa banalità del bene, in pratica di pornografia del terrore, particolarmente, in questo lavoro, si legge solo di un uomo vessato da un post-trauma troppo severo che deliquia in un tribunale dopo aver visto esplodere le fiamme davanti alle porte dell’aldilà e aver capito cosa davvero volesse dire, l’inferno. Rispetto per il cronista e per il suo cuore, meno considerazione in quanto autore di un romanzo. Egli stesso non considerava sé stesso uno scrittore che scriveva letteratura. Questa è la sua cronaca su due anni di deportazione, sull'inesistenza dell’identità e la riduzione a numero di serie. Il tempo lì non era lo stesso e gli abitanti non vivevano secondo le leggi del mondo. Loro non avevano più nomi. Il loro nome era il numero Ka-Tzetnik.
House of Dolls (Beit habubot, 1953) è un parto peculiare: quasi rosa intermittente in principio con troppi esclamativi e troppi dislocamenti a sinistra nella traduzione, poi approda alla casa dell'oscurità. Fuori discussione l’importanza dei contenuti, non si tratta di un’opera letteraria di gran qualità, non sempre riesce nell’intento di tradurre il mostruoso di quella sciagura e della sua psiche, ma è un’impresa difficile se non ci si è stati e, ovviamente, ancora più difficile se la si è vissuta. Scrittura emotiva di struttura piuttosto debole costellata di lunghi deliri e incubi, il buono non sta nella trama - che è quasi irrilevante - delle teste di ponte, ma nel mezzo che si è percorso. Di linguaggio lineare e chiaro, risultano invece efficaci ed efferate le descrizioni di forte lirismo negativo circa le angosce dell’attesa del tristo fato incombente e le osservazioni macabre sulle apparenze/interiorità della condizione di quella prigionia e delle identità perdute e individualità strappate. 135633 fu ritrovato mentre vagava alla deriva di un cielo di ceneri, le stesse nelle quali tutta la sua famiglia e la sua umanità erano state ridotte nel forno crematorio di Auschwitz. Ka-Tzetnik visse una vita estremamente riservata, diventando un mito. Sembra che scrivesse tutta la notte e che non uscisse mai di casa nonostante i suoi libri vendessero milioni di copie. Decise di chiamare sua figlia Daniella. Per il resto, quello che faceva era segreto. Niente interviste, nessuna promozione per i suoi libri, neanche al telefono.
Una rigorosa separazione tra la sua identità quotidiana e quella di Ka-Tzetnik 135633.
KZ/Selektion 3: Kraków-Płaszów.
Divisione del lavoro, Divisione della gioia. La casa delle bambole. Feld-Hure A13653 e Feld-Hure A13652.
Un numero di matricola tra i seni, un lungo timbro azzurro ed elettrico. La gioia, evidentemente, ha molti volti.
Delle lampadine rosse, accese, indicavano che il reticolato era attraversato dalla corrente ad alta tensione. Fuori c'era una sorprendente distesa di fiori e di alberi. Le pareti della baracca erano ricoperte di rose, erano rosse e, in distanza, il reparto scientifico sembrava galleggiare su un lago di sangue. L'edificio era vuoto, il suo silenzio incombeva come un incubo su tutto. Il mutismo delle cose accresceva, fino a rendersi insopportabile. Fu così che Daniella fu trasferita alla Divisione della gioia.
Il calore di fiamma che aveva attraversato il suo utero bruciava ancora dall'interno. Il suo corpo nudo era madido di sudore. Soltanto in quel momento ebbe la coscienza di essere immersa in una pozza di umori che le uscivano ininterrottamente dal corpo, attraverso tutti i suoi pori dilatati. Tra il reticolo della sua cella poteva vedere, nelle gabbie di fronte, ragazze gravide intente a ricamare fiori rossi su tovaglie bianche di lino. Alla Divisione della gioia le ragazze venivano inviate al reparto chirurgico sperimentale per esservi sterilizzate in massa. Daniella era stata sterilizzata nella baracca delle ricerche. Gli esperimenti duravano per lunghi periodi: fecondazioni artificiali, gemellari, aborti, parti prematuri e vari metodi di disutilità.
Organi venivano rimossi dai corpi e venivano sostituiti con organi artificiali. Venivano sperimentati medicinali tossici di ogni genere per fare esperimenti su esseri umani. La quiete era assoluta, come se ci si ritrovasse in un acquario sotterraneo. In una gabbia isolata una creatura guardava intensamente attraverso il reticolo.
Era stata una ragazza nello sbocciare della giovinezza. Adesso, non era più comprensibile se quell'essere fosse di sesso maschile o femminile. Un frammento di vita.
Come se i medici militari del campo fossero riusciti a ricreare in laboratorio l'homo di Neanderthal.
Da una stanza accanto entrò una dottoressa slovacca. Teneva in mano una giara di vetro. Dentro galleggiava in un liquido chiaro un pezzo di carne sanguinolenta, foggiata come un cuore umano. Consegnò al primario che la sollevò alla finestra per esaminare l'organo alla luce del giorno. Osservò alternativamente la donna da cui era stato asportato e l'oggetto amputato. Sangue estratto, natura nascosta da trasferire attraverso un tubo di vetro in un'ampolla, la vita spalmata su un vetrino. Il primario deliberò che l'unità di esperimento sarebbe morta. L'istituto scientifico. Come quando si era legati sul tavolo della tortura, nelle carceri della Gestapo, e gli strumenti di morte cessavano per un attimo di spezzare le ossa, il midollo in esse racchiuso pareva volesse improvvisamente mettersi a cantare di gioia; anche se le uniformi nere erano sempre lì, sovrastanti, si sentiva il desiderio di mettersi a ridere con loro. Era il sollievo delle ossa spezzate, era quel primo momento di respiro che costringeva a farlo, il midollo, improvvisamente, voleva cantare.
Come nelle celle della Gestapo, ci si abbandonava alle braccia liberatrici dello svenimento.
Il sonno era soltanto una breve parentesi di respiro, nell'assedio incessante del dolore.
Nelle baracche dipinte di rosa si esercitava una sorveglianza costante sul corpo delle ragazze puttane di campo. Alla Divisione della gioia dovevano sottostare a una visita sanitaria una volta alla settimana. Tutte quelle che erano afflitte da una qualsiasi deformità venivano preventivamente eliminate. Il KB era diviso in due settori. In uno, che era chiuso, venivano messe quelle che avevano contratto una malattia venerea durante il servizio del piacere. Da quel settore, le ragazze erano inviate all'ospedale, dal quale non facevano più ritorno. La paura era contagiosa, di lì a poco sarebbero tutte state costrette a sorridere. Quelle che commettevano un'infrazione, in quel paradiso di sesso coercitivo e cibo in abbondanza, erano segnalate in un rapporto. Se un ospite non era soddisfatto del trattenimento, non aveva che da riferirlo, segnalando il numero tatuato sul petto della ragazza, andandosene via e portandosi in tasca il destino di quella vita. Punizioni, purghe dei peccati e peccati d'indifferenza. Quando c'era una flagellazione, tutte le prigioniere dovevano assistere alla tortura.
Quanto più una ragazza era bella, tanto più forte era l'odio di Elsa.
Nella sua stanza, il santuario della Nuova Civiltà Umana, Elsa di Düsseldorf non era mai soddisfatta.
Sulla spalliera di ogni letto, era segnato il numero tatuato nella carne della sua custode. All'ispezione mattinale il cuscino del primo letto doveva essere perfettamente allineato con quello del venticinquesimo. Nella casa, quasi ogni sera, Tzippora Shafran cantava e tutte le ragazze facevano un coro. Cantava le nenie che sua madre le cantava quando era bambina. Canzoni in ebraico, perché la madre, in gioventù, era stata insegnante di ebraico. La notte accoglieva il canto nelle sue braccia nude, lo sollevava portandolo al di là dei reticolati, per nasconderlo nel rifugio sicuro delle sue alte volte, su tenui onde verso la porta d'argento della luna piena, l'aureola attorno al capo torturato di Gesù di Nazareth. Per un attimo breve, la realtà svaniva e le ragazze sarebbero rimaste immerse nel sonno dell'eternità. La melodia di un altro mondo, lontano, scomparso, dimenticato. Potevano quasi udirne il pianto. Che poi arrivò. Puntuale. Arrivò per Hanna di Chebin, dalla cui bocca fuoriuscivano i denti spezzati e dalle cui orbite schizzavano fuori i bulbi oculari. Hanna voleva morire, chiedeva di morire. Fu fatta soffrire tra mitragliate di percosse prolungate, come se le sue grida fossero state una musica per Hentschel, l'ufficiale delle SS. Arrivò per Tzippora. Tzippora rimase in silenzio, lasciandosi maltrattare senza che dalla sua bocca uscisse un solo lamento. Tzippora aveva già varcato il limite della coscienza. Una processione lasciò la baracca. Le ragazze della Divisione della gioia guardavano verso un'immensa fossa comune piena di scheletri. Gli scheletri erano nudi. Ossa. Un numero inverosimile di ossa e l'orribile calma che incombeva su quel luogo. Visi chiusi e sconosciuti avanzarono con incedere maestoso, consci della loro importanza, portando la morte con sé. E la morte li seguì. E la morte uscì dalle loro file. Il terrore, l'orrore e la cessazione passarono come una ventata sul piazzale delle esecuzioni. E fu la fine.
Daniella, fu costretta ad assistere all'esecuzione. Era tutto inutile. Era tutto finito. Lei stessa non ci sarebbe stata più. Nessuno ci sarebbe stato più. I vivi non sono morti, i morti non sono vivi e i fiori sono come le persone, sono vivi. Ogni cosa si era svolta nel vuoto pneumatico. Un attimo dopo era scomparsa.
KZ/Selektion 4: Mauthausen.
Harrik aveva sostenuto dei corsi di medicina nel periodo d'anteguerra.
Adesso, suo malgrado, era stato designato medico del campo di Niederwalden. Igiene e Svastica.
Sul tavolino dell'infermeria ogni cosa doveva essere perfettamente incolonnata, secondo un criterio di altezza e di larghezza. Etichette bianche, scritte in latino. Non poteva essere lì, eppure era lì.
Non udiva le grida, le vedeva. Civiltà Moderna. Molti dei deportati si mettevano in viaggio con dei medicinali. Ma era proibito essere ammalati, al campo. Ormai erano diventati materia in putrefazione.
Il cestino della carta straccia era sempre pieno fino all'orlo di residui di materia in decomposizione.
Alla Baustelle si diventava sempre più deboli, ci si sentiva svenire ed era soltanto la paura a tenere in piedi gli uomini. La paura dei colpi e delle percosse brutali riusciva a vincere anche le fauci della fame. Spesse volte, i deboli resistevano più a lungo dei forti. Avrebbero preferito essere insensibili, ma non potevano. La coscienza rifiutava ancora di farsi annullare. Alla sera i prigionieri rientravano portandosi sulle spalle i morti della giornata, si schieravano sul terreno delle adunate e attendevano l'appello, al quale il dottore doveva essere presente. I cadaveri venivano ordinati. Le teste dovevano essere in linea con i piedi della prima fila, i corpi uno di fianco all'altro, le mani incrociate sui ventri cavi, non era ammissibile che l'allineamento non fosse perfetto. La volontà dei deportati era oramai completamente prosciugata, erano diventati scatole vuote. Andavano dove si diceva loro di andare e si fermavano dove si diceva loro di fermarsi. Suonava il gong del silenzio e uscivano carponi dai loro covili, si recavano sul piazzale antistante la baracca e si disponevano ordinatamente. Dovevano essere ricondotti alle loro cuccette. Ossa asciutte, vasi sanguigni vuoti. Non si lamentavano mai. Le sembianze umane erano già state cancellate da tempo. Come se i morti non fossero quelli che erano partiti, ma gli altri, i rimasti.
Il sorgere del sole non interessava più a nessuno. La luce del giorno era ora inutile.
Fuori, il giorno nascente rivelava un mondo remoto, al quale non appartenevano più.
Bocche aperte cercavano di formulare delle parole, ma non ne usciva alcun suono. Erano gli occhi che invocavano aiuto. Erano stati in fila per ore, tranquilli. Era difficile capire cosa volessero. Avevano solo bisogno di qualcuno che li aiutasse a piangere. Ecco dov'era, la vita, sfinita. Sostava un attimo fuori dall'involucro che l'aveva ospitata e che stava per lasciare per sempre. La vita, in un soffio, stava per andarsene.
La prigionia aveva tramutato Tedek in un idiota. Adesso il suo polso non batteva più, ma era ancora vivo.
Si poteva udire il grido che gli era rimasto compresso dentro uscire dalle ferite aperte del suo corpo morto.
Le sue qualità adesso erano tornate a brillare nei suoi occhi vivi. Tedek, finalmente, era scomparso.
E no, quella cosa a terra non poteva essere Zanvil Lubliner. Una cosa morta, Harrik.
Un Minian si radunò, ma allora come oggi, non si recita il Kaddish per il Profeta Elia.
La morte era dovunque la stessa. Il principio dell'esistenza e la fine del trapasso erano sul punto di toccarsi. Il deposito delle carogne e i locali delle SS si equivalevano. Era in mezzo a loro come uno dei tanti, uguale a ognuno di essi. Li fissava ma non li vedeva, così come gli altri lo guardavano senza vederlo. Ora l'avrebbero costretto a entrare. Lo avrebbero tenuto fermo, per fargli vedere ciò che stavano per farle. Il Führer osservava la scena dall'interno di una cornice di un quadro. Aveva un mantello nero sulle spalle e delle nuvole brune si addensavano dietro di lui. Harrik giaceva sul pavimento e la sua vita giaceva accanto a lui.
Harrik e Daniella si intravidero per un istante, o forse no, entrambi devastati fisicamente e annebbiati mentalmente in quei locali delle SS, poi mai più. Poi fu la fine.
Contemporaneamente la notte allungò la sua lingua nera per leccare il sangue della bambola diciassettenne. Fra ali candide la vita torturata di Daniella Preleshnik. Il cielo ricopriva la terra con un sudario bianco.
Fella, invece, non riusciva nemmeno più a odiare Dio. Fella verrà distrutta alla mezzanotte.
Nessun amore perso, nessuna vita e nessuna gioia nella casa delle bambole, anzi, la nox æterna.
Carico i commenti... con calma