Si è parlato insistentemente dell’ormai abusato “ritorno alle origini” per il nuovo, settimo lavoro in studio dei Kaiser Chiefs.

Probabilmente la fredda accoglienza riservata alla (per lunghi tratti improbabile) svolta pop dance del precedente “Stay Together” ha lasciato il segno, ed eccoci qui a parlare di un album che, a detta del frontman Ricky Wilson, possiede un’anima al cento per cento Kaiser Chiefs.

La missione è, c’è da dirlo, perfettamente riuscita: “Duck” (questo il titolo) è un disco in tutto e per tutto alla KC, con tutti i pregi e i difetti del caso, solo che stavolta i primi superano di gran lunga i secondi, a differenza del lavoro di tre anni fa. Merito anche del produttore Ben H. Allen, già regista della clamorosa resurrezione della band nel 2014 con il sottovalutato “Education… And War”, che rilanciò la band dopo il pesante tonfo di “Off With Their Heads”.

Allen aiuta gli ex ragazzi prodigio a puntare sul loro miglior talento: un’innata bravura e naturalezza nel costruire la melodia giusta al momento giusto. Ne escono pezzi davvero convincenti ed efficaci, come l’apertura “People Know How To Love One Another”, gioiosa ed arrembante, o come il singolo “Record Collection”, l’unico brano del nuovo lavoro ad ibridare elementi funk dance della release precedente con il tipico sound alla Kaiser Chiefs primi anni duemila. Devia un po’ dal tracciato anche la deliziosa “The Only Ones”, che col suo afflato tipicamente eighties fa centro pieno e regala l’ennesima melodia da mandare a memoria.

Wilson e compagni sono un po’ meno convincenti quando i ritmi rallentano (“Target Market”, uno yacht rock forse troppo blando, e “Lucky Shirt”, anche se il refrain in questo caso è davvero irresistibile), mentre divertono da morire quando i ritmi si alzano e saltano fuori insospettabili fusioni di elementi diversi tra loro, ad esempio i fiati conditi di elettronica leggera della frenetica “Wait” e la chitarra quasi flamencata di “Northern Holiday”.

Tornano, a proposito, le chitarre, anche se non sono più centrali ed arrembanti come nei primi due album, ma fungono da cornice ad un quadro a forti tinte pop : “Golden Oldies” e la bellissima conclusione “Kurt vs Frasier (The Battle For Seattle)” in tal senso sono pezzi brit fatti e finiti, che nel ritornello rievocano i coretti ruffiani dell’epoca di “Employment”. “Don’t Just Stand There, Do Something” invece è un gradito omaggio agli Arctic Monkeys più maturi degli ultimi dischi.

Un ottimo ritorno questo “Duck”, non il ritorno alle origini tout court strombazzato ai quattro venti, ma il ritrovamento di un nuovo equilibrio per i cinque di Leeds ed il loro miglior disco da anni a questa parte.

Brano migliore: Kurt vs Frasier (The Battle For Seattle)

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