Recensire un disco come questo è difficile. Come ignorare "Carry On Wayward Son", un vero inno, che è passato ai posteri come quello più famoso e rappresentativo della band, anche se non lo ritengo il migliore. Secondariamente perchè quando un album ti "strapiace" come questo, è difficile mantenere l'obiettività senza farsi prendere dall'entusiasmo. In ultimo, discriverlo passando tra etichettature, similitudini, somiglianze ed assonanze varie è riduttivo, inutile ed in un certo qual modo offensivo, soprattutto se parliamo di un gruppo come questo e di un album che ha fatto la storia oltreoceano: quadruplice disco di platino, mica pizza e fichi!
Ogni volta che lo ascolto ho le stesse sensazioni. È liberatorio, arioso, brioso ed un tantino incazzato: è come mettersi in macchina una mattina all'alba e guidare per chilometri e chilometri attraverso paesaggi sconosciuti, senza pensieri, lasciando le preoccupazioni alle spalle, una grande fuga insomma. Ci accompagna nel viaggio Steve Walsh, con quella sua voce che raggiunge, con facilità disarmante, tonalità inarrivabili, rimanendo sempre chiara, pulita, nitida, mai strozzata, senza cedimenti o sbavature. La musica è un rock potente, rotondo, mai fuori dalle righe. Ogni traccia ha una storia a se stante, anche se complessivamente il risultato è l'omogeneità. Le influenze sono troppe, e forse anche loro influenzeranno, con questa, le produzione di chi gli succederà negli anni, come Journey, Boston, Reo Speedwagon. Sicuramente c'è molta della tradizione progressive britannica fusa con quella del rock americano on the road, anche se in questo, che è il quarto lavoro dei nostri, è meno marcata la prima per dar spazio maggiormente alla seconda.
Purtroppo, a mio giudizio, l'unico peccato commesso è stato quello di porre in secondo piano il violino di Robby Steinhardt, che rappresenta il marchio di fabbrica dei Kansas (breve digressione: se lo vedete nelle foto di oggi, è uguale identico a quello di trenta anni fa, con un tuttuno barba-capelli che lo fa assomigliare ad un orco!). I brani sono un crescendo lento, graduale e senza mai strafare, seguendo una linea precisa dettata dalla giusta calibrazione dei tempi e dei ritmi, fino ad arrivare a "Cheyenne Anthem", per me il pezzo migliore di tutto il CD. È una prova corale, a tratti magistrale, in cui c'è spazio per tutti a volontà; la velocità, in quasi sette minuti, cambia più e più volte: accelerazioni, frenate, facendo passare addirittura la melodia attraverso quelle che sembrano le note della sigla TV di un programma per bambini. Un arpeggio al pianoforte da brano di musica classica ed eccoci al termine, nel più classico stile prog. "Magnum Opus" è il gran finale, quasi del tutto strumentale, classico pezzone conclusivo, in cui più che la qualità troviamo l'estro e gli assoli dei singoli musicisti, tutto d'un fiato con sprazzi di buon hard rock ante litteram.
Manca lo speaker che ci annuncia il line-up, perchè il tutto sembri veramente un live. Perchè questo è veramente uno show. A qualcuno sembrerà esagerato, ma penso sia tra quei dischi da possedere assolutamente, almeno se volete capire veramente cosa era la musica nel 1976 e giù di lì. E non solo...
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