Quello che è tuttora l’ultimo disco in studio dei Kansas, benché pubblicato oramai quattordici anni fa, è frutto di un’insolita ma evidentemente al tempo necessaria scelta musicale: il gruppo si mette per l’occasione interamente nelle mani dell’ex socio fondatore Kerry Livgren, ossia colui che li aveva mollati una decina di anni prima per proseguire la carriera da solista.
Per scelta, o più probabilmente per forza (un prolungato blocco compositivo all’interno del gruppo, credo) il pingue Livgren subentra temporaneamente a comporre tutte le musiche senza l’aiuto degli ex-compagni ma non solo, si spinge persino a spodestare completamente il frontman Steve Walsh dalle sue abituali mansioni di tastierista, oltre ad imbracciare la chitarra solista relegando in secondo piano il guercio Richard Williams, come già succedeva ai bei tempi.
In ogni caso il disco suona in tutto e per tutto da Kansas e non come un solo album, sia perché l‘ancor grandiosa seppur affaticata voce di Walsh è altamente caratterizzante, sia anche per l’ottimissima performance al violino di Robby Steinhard, il quale imperversa più che mai in più o meno tutte le canzoni col suo evocativo e romanticissimo tocco, donando un deciso sapore anni settanta a questa tarda, ma ben riuscita e stimabile opera.
Sparite del tutto le velleità AOR e hard pop che avevano attraversato la produzione della formazione negli anni ottanta (precisamente dal settimo album “Audio Visions” al decimo “Power”), l’occasionale settetto si impegna a fondo nel suo tipico robusto, intenso, ridondante e romantico rock progressivo all’americana, ossia poco influenzato dalla musica classica rispetto alla scena inglese, e sempre in ricerca del cambio di tempo e d’atmosfera, della pomposità, dei tempi dispari nella ritmica, delle fanfare gloriose e dei vorticosi intermezzi strumentali.
Trovo magnifici in particolare due episodi, ossia l’iniziale “Icarus” con un passaggio in pieno ritornello dal modo maggiore al minore sullo stesso accordo che ha semplicemente del magico, e la mirabolante “The Coming Dawn”, dove la magia sta invece nel lungo e panoramico solo centrale di violino, un grandioso tema strumentale sopra continui cambi di accordo, pervasi di augusta malinconia.
Il progressive metal dei Kansas rimane al vertice del genere, anche considerando quest’ultimo loro contributo; nel mio personale giudizio solo il nome Rush è ancor più prestigioso. Al tempo dell’uscita di queste musiche i loro discendenti Dream Theater erano alle prese col decente e niente più “Six Degrees Of Inner Turbulence”… e allora non c’è proprio paragone: meglio i padri dei figli. Le ultime notizie danno la talentuosa band di Topeka purtroppo abbandonata dallo stanco Walsh, ritiratosi a vita privata, al tempo stesso pronta a tornare sul palco con un nuovo cantante e tastierista! Speriamo che queste nuove addizioni forniscano anche forza e motivazioni per pubblicare nuovo materiale inedito, da troppo tempo mancante.
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