Introduzione:

Cacchio che bel disco!

Irresistibile in molti punti, suonato da dio come pochi altri mi è capitato di ascoltare.

Equilibrato, senza alcuna forzatura o magniloquenza, beninteso in ambito comunque pomposo, trattandosi dei Kansas.

Una piacevole sorpresa… è filato diritto fra i miei due o tre preferiti del gruppo; anzi se non è il mio preferito, è quello subito dopo.

Melodie ariose e convinte, voci mirabolanti, cori celestiali, ritornelli aggancianti, chitarroni e tastiere sobriamente equilibrati e in continuo scambio di contrappunto, sezione ritmica impareggiabile specie la batteria, suono perfetto.

Contesto:

Il vetusto ensemble di Topeka, Kansas, qui risorge (anno 2016) dopo tre lunghi lustri di oblio, annacquato dalle solite raccolte, dischi dal vivo ecc. Nel 2000, epoca dell’album precedente “Somewhere to Elsewhere”, ci avevano messo una (ottima) pezza richiamando temporaneamente in forza lo storico loro compagno Kerry Livgren ed affidandogli in toto gli oneri compositivi nonché tastieristici. Abbandonati poi nel 2014 dall’altra (d’altronde ampiamente esaurita) risorsa compositiva e cioè il tastierista ed ex grande cantante Steve Walsh, la formazione si era ritrovata col culo per terra, senza chi potesse portare nuove composizioni al loro repertorio.

Niente: l’hanno risolta, alla grande. Spuntano qui dal nulla due tizi uno più bravo dell’altro, entrambi attempati ed esperti, provenienti da quel pozzo USA di grandi musicisti quasi sconosciuti che sembra non avere mai fondo (basta farsi un giro in quel paese per scoprire ogni sera esecutori pazzeschi suonare davanti a quattro gatti in un bar o un pub… da mettersi le mani nei capelli… gli Stati Uniti sono proprio un paradiso per la musica rock!).

Il primo è un figlio d’immigrati pakistani a nome Zak Rizvi. Ha la faccia di uno di quelli dietro a un bancone di Kebab, invece sa benissimo cosa suonare e cosa non, produce perfettamente il tutto e si guadagna il posto in formazione (era stato chiamato solo per il ruolo di produttore).

L’altro è il nuovo cantante Ronnie Platt, dalla voce estesa e pulitissima (in studio, almeno). Due terzi di John Elefante ed uno di Steve Walsh, tanto per agganciarlo ai due precedenti singer. Nel senso che è meno aggressivo di Walsh, per niente roco, ma più dinamico di Elefante. Fantastico anche nei cori, aiutato validamente dal bassista Billy Greer, dotato a sua volta di voce da frontman.

Punti di forza e lacune:

Le composizioni, i cori, il violino corposo e imperante a livello di parti soliste. La batteria creativa e solida di Ehart, le melodie ben al di là del rock e del blues, intrise di cultura europea e quindi progressive. Le parti soliste intricate ma non troppo, i tempi dispari ma senza fare gli sboroni, la coralità dell’arrangiamento con tutti gli strumenti a turno in proscenio (dietro al violino, decisamente prevalente): funziona tutto in quest’occasione e non vi sono debolezze. Certo alcuni brani agganciano più di altri, ma non conto dei riempitivi. O forse uno: “Summer

Vertici dell’album:

Piena di “ganci” melodici, o ritmici, o strumentali quest’opera, vediamo:

l’iniziale “With This Heart” introduce la voce magnifica di Platt, subito in un percorso vocale ampio e ricco verso gli acuti, da band scafatissima e ben al di là delle ristrettezze del rock’n’roll, intanto che la ritmica spareggia i tre quarti e fa diventare il tempo un 13/8 da brodo di giuggiole.

La seguente “Visibility Zero” alterna il roccioso riff ad un cantato più disteso e che indugia delizioso verso il ponte, preludio ad un fantastico ritornello melodiosissimo. Il violino elettrico di David Ragsdale prende a spadroneggiare nelle porzioni strumentali e non smetterà più.

Refugee” è toccante, e magnifica. Sull’aria della celebre “Dust in the Wind” in forza dell’arpeggio delle chitarre acustiche, mostra l’augusta voce di Platt, qui veramente vicina a John Elefante. Il ritornello è paradisiaco, cori e testo e accordi in discesa, tutto giusto. Il violino raccorda, come sempre. Una magnificenza! Pure il ponte finale: via le chitarre ed in mano al pianoforte.

The Voyage of Eight Eighteen” è la magnum opus dell’occasione, otto minuti abbondanti e mood deciso da Kansas anni settanta. Strofe sognanti all’inizio e alla fine, con in mezzo un lunghissimo, intricato ed insieme filante excursus strumentale, anche e soprattutto grazie a Phil Ehart, una sentenza dietro tamburi e piatti.

E mi piace tanto anche “Camouflage” per via dell’ennesimo ritornello corale e mega melodioso, spuntante dall’ennesimo riff tosto e cadenzato, quasi ottuso, e perciò ancora più gradevole.

Crowded Isolation” è tesa e con grandi pretese progressive. Grandioso il lavoro di Platt nei cori. La ritmica è un po’ già sentita tante altre volte, ma il ritornello vale la candela ed anche la ricca porzione strumentale, dominata stavolta dalle tastiere, anche se il violino non manca mai.

Semplicemente terrificante la squisitezza melodica della parte vocale di “Home on the Range”: a me scava l’anima. Platt al massimo, sopra un tappeto di acustiche organizzate in un tre quarti con sorprese e incastri ritmici.

Il resto:

The Unsung Heroes” comincia alla Kansas col violino maramaldo, poi presto si assesta in un pomposo semi-lento rhythm & blues, piacevole e ben fatto anche se ordinario.

Granitico riff d’apertura, e poi d’interludio, anche per “Rhythm in the Spirit”, mentre il cantato che sopravviene è inizialmente ostico per poi presto distendersi ad iper melodico, deliziosamente sostenuto prima dai ricchi cori e poi dallo scolastico arpeggio di violino.

Summer” la canta il bassista Billy Greer e bisogna saperlo per accorgersene: stessa voce alta, pulita e melodica, solo un po’ meno magnifica del suo collega. Il pezzo è un hard pop rock dal ritornello un po’ scontato.

Section 60” è uno strumentale romantico e barocco, Kansas al 1.000 per cento. Prima il violino elettrico e poi la chitarra iper distorta e sonorissima si incaricano di condurre la melodia.

La finale “Shenandoah” è un lento strumentale alla Jeff Beck, ed il chitarrone di Rizvi non potrebbe essere più sonoro. Una calibrata outro per l’album.

Giudizio finale:

Meno male che si raccattano ancora simili dischi, che profumano di rock classico complesso e accessibile allo stesso momento. Lode a questi immortali americani delle immense pianure centrali degli USA.

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