Irak, anni zero.

Deserto, ore di attesa per arrivare in città. Città che sono rovine, resti di edifici, resti di automobili, resti di persone, resti di civiltà. Soldati stranieri. Si vedono come liberatori. Spesso sono visti come invasori. Il caldo li obbliga a coprirsi, a bardarsi. Fino al punto di non saper distinguere i loro alleati dai loro nemici. La divisa del militare si fa uniforme alla divisa dell'avversario, uniforme al deserto e uniforme al cielo. Qua e là degli sbuffi nella sabbia. Proiettili in arrivo. Occorre abbassarsi, schivarli, pazientare. Mirare al cecchino. Ripartire in colonna.

Reparto artificieri. Chiamano all'improvviso, via radio, serve una bonifica. Sospetto esplosivo in auto. Raggiungere il parcheggio, allontanare altri colleghi, i civili. Essere soli. Niente di eroico, nessun pathos da guerriero. Occorre la pazienza del meccanico, esplorare il pianale dell'auto, guardare sotto i sedili. Vedere se c'è un filo in più del necessario, seguire il suo percorso, fino al motore. E aprire il cofano, vedere cosa c'è sotto, scoprire la bomba. Studiare il disinnesco. Tranciare un filo. Aspettare... 3, 2, 1. Sei vivo.

Attendere una nuova chiamata. Sperando che non tardi a venire.

E che si possa ripartire.

Messasi in evidenza con film che cantano la rudezza e la virilità delle vite border line, dai criminali mascherati da presidenti degli States di "Point Break" ('91) fino ai deliri psicotici di "Strange Days" ('95), Kathryn Bigelow sa scavare a fondo dell'animo umano, più di quanto non abbiano fatto altri suoi illustri colleghi in pellicole più o meno recenti dedicate alla guerra, da "Jarhead" ('05) al recente "Brothers" ('09), che, del tema, hanno colto, anche in chiave d'impegno civile e democratico, la dimensione del dolore, della rovina e della disfatta.

Esplora a fondo il cuore della tenebra, la Bigelow, più di quanto non abbiano fatto altri suoi colleghi, per certi versi maestri, ancora più illustri, negli anni '70 e '80, rappresentando, ai tempi, la guerra dal punto di vista del soldato, come graduale perdizione nel nichilismo e nella follia, in cui uccidere diveniva, al contempo, un gesto suicida, visto in opere ormai classiche, da "Il cacciatore" ('78) ad "Apocalypse Now" ('79), giungendo fino a "Full Metal Jacket" ('87).

Nel suo percorso, la regista giunge a profilare un aspetto più sottile, incisivo, della guerra, e della vita militare: l'assuefazione al conflitto, e la sua necessità.

"The Hurt Locker" ('08) non è infatti, per quanto possa sembrare paradossale, un film sulla guerra, sul suo dolore, e sulla sua follia, quanto un film sulla vita di chi è esposto continuamente al rischio, alla morte come eventualità sempre più concreta quanto più passano i giorni di servizio e si avvicina la data del congedo senza che nulla sia capitato, finendo per adattarsi a questa condizione estrema, giungendo al punto di abituarsi ad essa e far divenire il terrore della morte, e l'adrenalina che si prova nello sfidarla, la ragione stessa della propria esistenza.

E' un film su chi rinuncia, intimamente prima ancora che come concetto morale, o ideale politico, al concetto pace come assenza di turbamento, sposando un'idea conflittuale dell'esistenza, in cui il massimo spasmo di vita si ha nel momento in cui la vita sembra sfuggire, viene messa in discussione da una sola, singola, mossa, dalla decisione di staccare o meno un certo interruttore, tagliare il filo rosso, o il filo blu.

Descrivendo gli animi, più che gli eventi bellici, in un film in cui, paradossalmente, la guerra non è che un contorno, un ambiente, una stasi, la Bigelow trascende le contingenze del conflitto in Irak, ridotto a semplice pre-testo narrativo, per tratteggiare una condizione umana universale, quella dell'uomo che realizza se stesso nell'arena, sia essa lavorativa, sportiva, interpersonale, anziché in una forma, più o meno reale, di quiete domestica, separata dal mondo e dai propri simili.

Se l'artificiere conosce se stesso, nel lontano deserto distante dalla civiltà occidentale, sfidando una "cosa", la bomba nella macchina - quasi un "ghost in the machine" - il cittadino comune, il civile rimasto lontano dalla frontiera e dalle linee di fuoco, non è poi troppo distante, nello spirito, dal militare, nel momento in cui afferma se stesso nello spasmo dei traguardi da raggiungere, degli obiettivi cui tendere, in un continuo conflitto con sé e con gli altri, in una sfida continua, e senza sosta, verso il mondo, quasi che sia questa sfida a trasformare l'individuo da "vitale" a pienamente "vivo".

Non è forse una novità, il tema trattato dalla regista statunitense e dai suoi collaboratori, se pensiamo ai tanti modelli letterari, classici e no, che descrivono situazioni analoghe: vedendo il film, mi viene in mente soprattutto l'Ulisse che, reduce dalla guerra di Troia e da dieci anni di navigazione nel Mediterraneo, sconfigge i Proci e lascia di nuovo sola la moglie per andare verso le Colonne d'Ercole, sentendo di realizzare il proprio destino solamente nel viaggio, e non certo nella sosta.

Discorsi non dissimili si potrebbero fare anche per altri archetipi, come il Don Chisciotte, l'Orlando Furioso, soggetti letterari che, non casualmente avevano trascorsi, o coltivavano sogni, di tipo guerresco, di tipo militare, universalizzando l'idea di "conflitto fra sé e l'altro" come principale fattore di identità, come concetto esistenziale che travalica, di molto, la sola dimensione politico-sociale della guerra, sulla quale si può - come ovvio - variamente dissentire, senza tuttavia potersi negare che essa costituisca, da che esiste l'uomo, un tratto comune di tutte le vicende storiche, una sorta di "soluzione a priori" delle ansie e dei turbamenti individuali.

Queste sono le ragioni per le quali considero "The Hurt Locker" uno dei film più interessanti degli ultimi anni, al di là del successo che gli potrebbe arridere nella futura "notte" degli Oscar, in cui è stata futilmente enfatizzata la "battaglia" fra la Bigelow e l'ex marito James Cameron nella corsa ad assicurarsi il maggior numero di premi.

Che poi questa battaglia sulle statuette, sia, nella sostanza, futile quanto la sua notizia, si potrebbe anche riflettere.

Magari nessuno ci ha pensato, al momento delle nomination: ma prospettare una battaglia fra donna e uomo, ex compagni di vita, concorrenti sul lavoro, aspiranti allo stesso successo, fautori di linguaggi opposti, come leit-motiv di una vicenda umana e professionale finisce per rendere ancora più vero il messaggio di "The Hurt Locker", svelando l'artificiere che è in buona parte delle persone, il militare glorioso che combatte una guerra senza gloria e senza vincitori. E anche senza fine.

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