Keith Jarrett è un genio.

Un genio della musica contemporanea. Un genio del jazz, del rigore dell’autodisciplina e della professionalità. Un musicista, e un lavoratore, fuori dal tempo e dai tempi. Un uomo senza discese a inferi commerciali o a banali compromessi, neanche e soprattutto quelli che è solitamente così facile firmare con se stesso. Insomma: un uomo che segue alla lettera l’aureo insegnamento del “non bastarsi mai”. Dunque, anche alla Scala, in questo 2007 di finto autunno, Jarrett ha dato la solita lezione di musica, di serietà e, detto con forte e voluta retorica, di vita. È stata, sostanzialmente, una perfetta “sintesi jarrettiana” in cui s’è sentito quello che Keith Jarrett è stato nella sua quarantennale carriera, diventando quel che è diventato oggi.

Abbiamo sentito le conosciute aperture melodiche, concentratissime ed assolutamente perfette, gli ossessivi di mano sinistra su un solo accordo, con pochissime variazioni armoniche e con improvvisazioni di mano sinistra, un interessantissimo ossessivo finale fatto di note talmente veloci (quartine…oltre…?) che sembravano un lunghissimo trillo, questa volta di mano destra, lasciando all’improvvisazione la sinistra, spesso incrociata; poi uno standard tra i bis ed un paio di blues, dei quali uno di esclusiva armonia e improvvisazione (senza tema, per capirci), ovvero un blues che può essere tutto e niente, così bello nella sua statuaria ed apparente banalità. Poi abbiamo visto il Jarrett isterico, per alcuni insopportabile e per altri (tra cui il sottoscritto) divino, che tenta invano l’opera impossibile nella quale mancò persino il duce (figurati tutti quelli dopo...), ovvero il riuscire a disciplinare gli italiani. In sostanza, in una perfetta pausa della melodia lenta e davvero entusiasmante dell’inizio della seconda parte del concerto, una simpatica vecchietta (giudicando da intonazione acuta e lieve vibrato catarroso) ha pensato, con un tempismo che neanche l’assente DeJonette..., di tossire rumorosamente. Lui ha fatto un eloquente “no” con la testa, ha rotto l’incanto e non ha appoggiato più le mani sulla tastiera, interrompendo così il brano più bello della serata che, se conosciamo il personaggio, verrà conseguentemente escluso dal probabile (e bellissimo) disco. Solita diatriba (anche tra noi nel viaggio di rientro…): fa bene, fa male? E' un isterico, non lo è? Altrove è così, non è così? E via dubitando, per il piacere nostro (fare polemica è sempre divertente) e del conversare in sé.

Un unico dubbio/quesito però lo butto lì, e poi se ne parli pure: ma l’homo italianus, se gli viene da tossire a un concerto di Jarrett, prova (dico, almeno, prova) a non farlo…? (premesso ovviamente che se ha l'influenza non rinuncia al concerto, neanche a pensarci, totalmente incurante di quante persone si rovineranno il concerto causa sua, secondo il consueto schema italo-egotico del “io fuori piove”...). Popolo italiano e scaligero perdonato, il Maestro ha proseguito, inizialmente un po’ incazzoso (e, trattandosi come sempre d’improvvisazione estemporanea, la cosa s’è riflessa nei primi pezzi del “dopo-cazziatone”, soprattutto il primo, quasi punitivo...), poi più rilassato, poi ancora splendidamente melodico e perfetto, come sempre. Standing oviation e quattro bis, a confermare il fatto che la serata è piaciuta a tutti e due i versanti del palcoscenico. Acustica perfetta e teatro carismatico. Dubbio che m’assaliva anche lì, guardandomi in giro: ma può, un immobile, essere carismatico? La Scala sì. Può. Probabile (anzi: certa) l’autosuggestione, il sapere quel che da lì è passato, i crismi del fighettismo italico e meneghino senza tempo, il fatto che mai si sputtanò, ecc… Tutto fa, ma il dato è certo: non c’è stato un solo attimo nel quale io, come tutti, non mi rendessi conto che eravamo tra le nobili coscie della Scala, e non tra le (ugualmente amate, almeno da me) gambottone bagascie di una bella società operaia di paese. E Jarrett, anche lui, lo sapeva: di lì era già passato, una volta sola, e ne uscì un disco ostico, bellissimo, che divise la critica come quasi ogni sua uscita discografica da quella sera a Colonia in poi. Chi dice faccia sempre le stesse cose, chi dice sia un genio, chi che sia nel pieno della propria estasi creativa e chi che sia stracotto.

Insomma: di Keith Jarrett, come di tutto, in Italia, si sente dire tutto e il contrario di tutto. Ma ci sono alcuni dati oggettivi, sui quali è ben difficile poter discutere...: in Jarrett c'è il jazz puro, quello moderno ed il richiamo classico, c'è una tecnica sopraffina che ha bisogno di ore di studio giornaliero, di passione, abnegazione, disciplina e anima. In lui c'è la nostra storia e l'imprescindibile storia musicale dell'America del secolo scorso. Sentendolo, soprattutto dal vivo, tutto questo si percepisce a pelle, e non si hanno dubbi: è un uomo che vive del suo lavoro e per il suo lavoro. E il suo lavoro è la musica. Ed è bello vedere che dove finiscono le sue dita debba inevitabilmente cominciare un pianoforte.

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