19 luglio 2006.
Keith Jarrett è al Gran Teatro La Fenice di Venezia. Cosa rimane? Non rimangono le circa due ore di musica, di ascolto. Nel ricordo quell’ascolto si spoglia della propria mondanità e si svela nella sua essenza: chiamata. L’arte di Keith Jarrett chiama, allontana lo spettro della volontaria attività di spiegare e far capire (comunicare), calamita invece la “ passività della nostra attività”: mette a tacere, porta ad emergere le sedimentazioni sopite, affondate, dimenticate. Ciò che rimane di quel concerto è il disorientamento, una confusione che più la si tocca col ricordo volontario e più si rarefa. Quello che Jarrett dona al suo ascoltatore è la chiarezza, di fronte a quella chiarezza il sentimento è di tremore.
Nell’attesa del concerto ho cercato di allontanare le aspettative. Durante l’evento la predisposizione ad accogliere in silenzio veniva sporcata di tanto in tanto dall’attesa di quei tipici "moments bienheureux” , grumi di bellezza che annodano tutto il tessuto musicale attorno. Nel passato Jarrett ne ha regalati molti: l’esordio del concerto di Colonia, quello che accade dopo 37 minuti e 23 secondi del concerto di Kyoto del 5 novembre 1976 (su "Sun Bear Concerts"), il sorriso” che cade tra i minuti 3. 23 e 3. 35 del pezzo n° 13 di "Radiance", o anche interi brani come il n°17 ancora di "Radiance" (che tra 9, 29 e 9, 36 rinasce inspiegabilmente da se stesso) o l’ intero “Concerts” (registrato a Bregenz)…
Gli ultimi secondi del terzo e conclusivo bis, come uno scherzo, hanno aperto quella dimensione d’incredulità. Sono la testimonianza di quella capacità Jarrettiana di condensare in pochi secondi una tale concentrazione di ciò che non so neppure come nominare: essenza, luce, bellezza… Forse è proprio l’ ultimo termine quello più adatto: una totale e abbagliante bellezza, quella che non fa parlare, che non tollera repliche, che chiama le parti del sé più obliate. Questo è l’ultimo ricordo, il più chiaro e il più confuso. Una manciata di secondi che oscura tutta una serata indimenticabile. Una manciata di secondi, ma che riguarda direttamente la sostanza dell’arte che Jarrett ha donato la sera del 19 luglio.
Del resto del materiale sonoro rimane la forma: un attacco difficile, free, (atonale?), un pezzo blues, varie ballate, ritmi swing, l’attacco della ripresa dopo la prima pausa (uno dei momenti più intesi, una summa del crescere costituito dalle prime quattro sezioni della prima parte di concerto). Tutto emerge, attinge e scompare in quei pochi secondi conclusivi. Sovrasta pure il rammarico e la rabbia per quel quarto bis negato dai soliti idioti con flash reiterato.
In definitiva cosa rimane? La consapevolezza di essersi trovati di fronte a dell’incredibile, ad un linguaggio superiore ed efficace. La speranza di ritrovare, anche solo se su un dischetto di plastica, quel magnifico fenomeno che appena è creato scompare dalla presenza: musica.
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