Milano - La Scala - 13 febbraio 1995, piove.

Sono riuscito a procurarmi un biglietto per l’ evento. Amo Jarrett, ho quasi tutti i suoi dischi, ma non ho avuto mai modo di sentirlo suonare dal vivo. Puntuale comincia il concerto, il primo brano – l’ intervallo quasi mi infastidisce e non vado al foyer (immobile sulla poltrona, ancora pervaso dall’ emozione) – il secondo brano, le ovazioni, i bis – tre, quattro – il pubblico si spella le mani, Jarrett ringrazia giungendo le mani in un accenno di inchino orientale (non so perché, ma sapevo che lo avrebbe fatto).

Piove, torno a casa. La mia compagna mi accoglie con uno sguardo sconcertato: ho un aspetto provato, la barba poc’ anzi rasata è ricresciuta, sembro quasi trasfigurato. Com’ è stato il concerto? Non so, non ricordo la musica. Ricordo perfettamente la sua gestualità, il suo muoversi sulla tastiera come amandola, il suo respiro, il ritmo del suo respiro, il suo canto, il battito dei piedi sulle travi lignee del palco, i suoi gemiti, il rumore sordo dei pedali, il rumore sordo del mio cuore. La musica, come dimenticata.

Ho dovuto aspettare due anni per ricordare e piangere, commosso. Nelle note di copertina la breve storia di un incontro tra quest’ uomo ed un altro uomo, un suo fan. Anche lui piangeva, cercando di comunicare ciò che aveva provato assistendo al concerto. Non so quante persone abbiano provato questo, quella sera. Credo e voglio sperare siano state tante, perché riuscire a far esprimere il cuore è ciò che ci rende realmente umani e degni di gioire della vita e delle sue manifestazioni o, come dice Jarrett:

"… The heart is where the music is"

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