Non soddisfatto di tanti successi, dischi epocali, ricerca e tensioni, pagate anche a costo della sua salute, Keith Jarrett continua a viaggiare nell'universo sonoro del piano solo. Così, mentre le sue magiche note risuonano ancora nella mente di coloro che, incantati, erano presenti alla serata del teatro "La Fenice" di Venezia, ecco arrivare nei negozi una testimonianza anteriore a quell'evento.

Si tratta di un'esibizione svoltasi nella prestigiosa Carnegie Hall di New York nel settembre del 2005. Un concerto corposo e intenso testimoniato da due cd, dove troviamo ogni elemento tipico della sua musica. Dalle dissonanze spigolose come il suo carattere, a invenzioni magiche e svolgimenti lirici, nei quali le note sembrano misteriosamente nascere dal nulla per rasentare la perfezione.

L'album, per alcuni versi, pare ricollegarsi idealmente ai concerti di Tokyo e Osaka del 2002 (Radiance - Ecm 2005) e può essere suddiviso in due momenti. Nel primo Jarrett svolge la sua performance attraverso una lunga suite suddivisa in dieci sezioni musicali, che mostrano tutta la sua capacità di improvvisare al pianoforte trame libere e preziose in grado di sorprendere nell'alternare contrasti. Nel secondo interpreta, invece, alcuni indimenticabili classici del suo repertorio, come la meravigliosa "My Song" incisa qualche lustro fa con Jan Garbarek (Ecm - 1978).

L'inizio è un singhiozzo strozzato per l'incedere fulmineo e ruvido degli accordi del pianoforte con digressioni da note acute a grevi. Non è un ascolto obiettivamente facile e ricorda strutturalmente alcuni passaggi, appunto, di "Radiance". Successivamente i guizzi vibranti delle sue mani sulla tastiera riescono a dare il senso di un'istintiva energia che scorre sotto la pelle, accompagnata naturalmente dai suoi tipici sibili in sottofondo. Quindi, di colpo arrivano quelle struggenti melodie che lo hanno reso celebre. In particolare nella Parte III che in poco più di quattro minuti riesce a condensare note che ondeggiano come uno spettro all'alba, per invocare in conclusione una nuvola di applausi del pubblico ammaliato. Viceversa, in altri passaggi del concerto (Parte IV e Parte VI) si realizza l'impressione che la pioggia di note generate dal pianoforte siano apparentemente scombinate. Evocano caos, disordine, claustrofobia opprimente di dissonanze amare. Note aggrovigliate, sgualcite che, però, col passare del tempo trovano un senso compiuto. Insomma, il filo logico c'è, ma non si vede, semmai si percepisce.

Si attraversano, inoltre, passaggi cupi, oscuri e inquieti, che, a volte, si evolvono lentamente per giungere ad un fluttuante finale malinconico ed etereo (Parte V); altre volte invece insistono sulla tensione ritmica riallacciandosi agli stilemi classici del blues (Part IX). Questo genere di atmosfere, però, hanno sempre il loro sorprendente contraltare, infrangendo così ogni possibilità di monotonia per l'ascoltatore. Ecco allora che, da un lato, si sviluppa un turbinio di accordi, nel quale sembrano affiorare le diverse incursioni di Jarrett nel mondo del piano classico genericamente inteso (Parte VI); dall'altro lato, prendono forma limpidamente quelle sue naturali invenzioni che sanno di complessa semplicità, riuscendo a combinare con sapienza, energia e intimità ora la melodia (Parte X), ora il blues in un spensierato crescendo (Parte VII).

E poi c'è la solita ineffabile magia rappresentata stavolta dalla Parte VIII. E qua diventa difficile descrivere. Ascolto e mi affatico alla ricerca di parole che diventino sinonimi di sensazioni cangianti. Quella nota sospesa in aria solitaria.... cosa è ? Eccomi dunque a masticare note dolci come la sera, afferrare bagliori di genio, vivere emozioni rosicchiate, inghiottire il fiato, liberarlo all'improvviso, vedere evaporare un sogno, rivelare un segreto d'avorio, custodirne un altro d'ebano, sventrare il buio, dimenticare tutto... parole al vento, solo inutili parole al vento che cercano una descrizione che non c'è, perché questa musica è fatta della stessa materia dei sogni: non sappiamo cos'è, non possiamo saperlo, ma non riusciamo farne a meno.

La conclusione del concerto è affidata a cinque brani dei quali solo uno non porta la firma di Jarrett. Si tratta di "Time On My Hands" di Harold Adamson, Mack Gordon & Vincent Youmans, che per la sua eleganza notturna, soffusa e sognante potrebbe ricollegarsi alle atmosfere delicate di "The Melody At The Night, With You" (Ecm - 1999). Fra gli altri brani spicca, oltre la già citata "My Song", la rassicurante bellezza melodica di "The Good America" che aggiunge un ulteriore alito vitale di insperata bellezza a un disco di per sé già splendido.

Un concerto di certo indispensabile per tutti coloro che amano la poesia musicale di Keith Jarrett, ma in grado di far breccia anche nei cuori di chi non lo conosce. Per innamorarsene, infatti, basta ascoltarlo e forse era sufficiente dire solo questo.

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