Non capisco. Parebbe un grande autore, a giudicare da questo romanzo; un autore drammatico dotato di uno stile personalissimo e di una capacità di raccontare ultraterrena, visionaria e delicatissima; eppure, questo libro è l'unico, tra i suoi, ad essere stato pubblicato nella nostra lingua. E chi, come me, non conosce molto bene l'inglese, non può che rammaricarsene.

Probabilmente è famoso come film, non come romanzo (romanzo uscito nel 1962, per i feticisti delle date). Nel 1975, infatti, dalla novella è stata tratta una pellicola molto ben fatta anche se semplificata (ovviamente; è il destino delle trasposizioni) salita alla ribalta grazie alla magnifica intepretazione di colui che presto sarebbe diventato un grande attore, Jack Nicholson, al suo primo ruolo di punta.

Io, ad ogni modo, ho visto il film da piccino e così, accingendomi ad aprire il libro, conservavo della storia ben pochi ricordi, e questo credo proprio sia stato un bene. Anzi, con il senno di poi, non riesco a ricordare bene, ma mi pare ci fossero proprio delle differenze tra libro e pellicola.

La sinossi: 1962, in un ospedale per malati mentali dell'Oregon la vita scorre non scorrendo, tra pazzi imbottiti di farmaci per cavalli irrequieti che si pisciano nelle mutande e sbavano sui pezzi del domino e inservienti neri come il carbone, crudeli, che chiaramente non possono fare a meno di violentare nelle docce i nuovi arrivati. Il tutto è regolato dall'orologio della Grande Infermiera, che comanda con maglio di ferro e che non sopporta veder trasgredire le regole di questo campo di sterminio in miniatura. I ribelli, i recalcitranti, vengono sottoposti prima alla pratica già ai tempi desueta dell'elettroshock e, solo in seguito se questi non sortisce effetti rilevanti, alla lobotomizzazione -se questa va bene, tornano svuotati e semimorti alle proprie abitazioni, e tutti sono felici perché oh, che bello, è guarito, i miracoli della scienza, guardando in faccia lo zombie che vivrà il resto della sua vita incapace di pensare. Se invece va male, il cervello del paziente si fonde e cessa completamente le proprie funzioni, rendendolo, di fatto, un vegetale. Ma pazienza, dicono i dottori, ogni tanto può capitare! Meglio così che lobotomizzati, comunque, sia chiaro. Muri scrostrati, elettroshock e aghi giganti spalmati con dosi generose di vasellina per rendere morbide le chiappe, medicinali -droghe- e gente distrutta, incapace di far passare il tempo, incapace di reagire, in una parola: svuotata da ogni cosa. Per disorientare ulteriormente gli internati, grazie a una speciale macchina residuo della seconda guerra mondiale, nelle stanze dove si svolgono le attività "riecreative" viene soffusa una particolare nebbia, nella quale è piacevole perdersi, librarsi; nella quale il tempo non scorre, ogni cosa è ferma e funge, inoltre, da culla, da protezione. Perso nel grigio nulla, nessuno può farti del male. E mentre lo pensi, senza accorgertene ti stai progressivamente "chiudendo" agli stimoli esterni. Quando l'irlandese "testarossa" McMurphy, allegro spaccone e uomo di mondo, viene preso sotto custodia, tra lui e la Grande Infermiera -che ha capito la minaccia, non può piegare questa persona, è immunizzata- si accendono i fuochi di una guerra fredda in miniatura. Porta una ventata di calore e umanità in un luogo dove la gente è costretta a lasciarsi andare. Lui rianimerà, progressivamente, i pazienti, pur senza volerlo, perché semplicemente fa parte del suo carattere. Protagonista, o meglio, narratore dell'intera vicenda, è un indiano che si finge sordo, e muto, probabilmente il più vecchio dei pazienti e con una storia abbastanza triste alla spalle che lentamente, attraverso schegge di ricordi e frattaglie oniriche, ci viene rivelata.

La storia in sé, non è particolarmente banale, ma a renderla unica è proprio il modo, lo stile, con cui viene narrata. Decisamente non c'è niente di sobrio o classico. Tutto è sospeso, straniante, fin dall'inizio, inizio che si rivelerà abbastanza facile da intaccare ma nonostante questo parecchio disorientante.

Il narratore per qualche pagina ci mostra una zona priva di colori; poi introduce McMurphy e, con la folata della porta che si chiude alle sue spalle, oltre al vento, nell'edificio e nella mente del lettore penetrano i colori; di campagna, di fumosi bar, di lavoro sotto il sole, di allegria e di amicizia. Non è solo il narratore ad accorgersene, lo stacco si sente proprio. Quando McMurphy è presente, il romanzo si colora fantasiosamente, e pare di sentire il profumo della terra e del grano, e quando non c'è, la nebbia grigia e l'asettico odore dei macchinari si impadronisce delle pagine.

Questo non è l'unico colpo di genio di questo libro. Io lo credo seminale, perché questo modo di narrare, ricco di metafore, non è freddo o asettico come quello di altri scrittori. E', in un certo senso, il romanzo anzianotto più moderno che abbia mai letto.

La storia, drammatica e a tratti davvero struggente, è una parabola dei disadattati e della gente incapace di adeguarsi alla società -l'indiano protagonista la riunisce sotto il nome Cricca e la odia segretamente- e questo viene portato all'estremo, alla scoperta, con un magistrale colpo di scena situato circa a metà libro, che ribalta sapientemente la prospettiva che avevamo tenuto fino ad allora, e che non viene mai chiarito, perché sottintende molte cose sulle quali è facile fermarsi a riflettere. Se l'autore avesse spiegato questa cosa... il romanzo avrebbe perso punti. E' bene chiarire: non c'è niente di incompiuto in quest'opera, ben delineati i tre punti fondamentali, i tre tronchi: inizio, svolgimento, finale, che chiude le file, e che non è chiuso ma paradossalmente più chiuso di tanti altri che si possono definire tali. Più di così non mi va di dire. Ma è dura parlarne così.

Una scena in particolare mi è rimasta impressa, e ve la "spoilero". Il nostro indiano, una notte, si accorge che la finestra della sua stanza è rimasta aperta. Ci si affaccia e... vede il mondo, la notte, la libertà, rappresentata da un cane che passeggia per il giardino, allegro e festante. E capisce quanto ha perso, quanto gli manca. Descritta sapientemente, è un contrasto, uno squarcio, tra il luogo senza tempo dell'ospedale e il grande mondo, due realtà diverse e apparentemente incompatibili.

Consigliato a chi cerca storie drammatiche ma non melense, ben scritte e a tratti davvero toccanti.

(alcune versioni rovinano il finale nel riassunto posto sul retro del volume: meglio non leggerlo, in ogni caso!)

Carico i commenti... con calma