Anche tra i fans più accaniti dello Scherzo, c'è chi questo disco non l'ha proprio digerito, e se fosse costretto a parlarne, lo liquiderebbe in due parole come "un incidente di percorso". Terzo capitolo della "Triade new wave", "Outside The Gate" esce forse in un periodo ormai infelice, dove il mainstream copre della sua spazzatura tutto quanto di buono era emerso anni prima dall'underground. Per quanto allora fossi piuttosto giovane, se penso al 1988 e in generale alla fine di quella decade, non possono che tornarmi alla mente i balletti di Michael Jackson, il pop big-babol di Madonna e le urla soul di Tina Turner, mentre Rocky Balboa affronta l'ennesima sfida sul ring con James Brown che gli canta sotto "Living In America". Lasciamo stare qualche debole fiammella di luce che ancora tremola in quel di Londra e dintorni, e partiamo intanto col dire che, in questo disco, di inglese c'è veramente poco. Sarebbe però esagerato affermare che, per una volta, i Killing Joke si siano abbandonati allo spirito del tempo, con la sua plastica e la sua decadenza, perché non è proprio così . "Outside the Gate", come evidenzia la copertina warholiana con la testa di Jaz a mo' di mappamondo, è il racconto di un viaggio, talvolta non sempre reale ma onirico, con i testi che fuggono da quel marasma e si rifugiano in un mondo tutto loro, intimo, didascalico, da confidare alle persone più vicine. E se le musiche in più di un caso strizzano l'occhio alle timbriche e ai suoni U.S.A e getta di quel periodo, va detto che la costruzione dei brani è sempre ben studiata e mai banale, grazie a trame di buona elettronica e ad incontri ravvicinati col mondo prog, anche se a lungo andare l' assenza del neo-defezionario Big drummer Ferguson comincia a farsi pesante.
Si parte con "America" ed è subito un prendere o lasciare: chi è allergico ai suoni smaccatamente eighties rabbrividirà a sentire quelle trombe sintetiche che aprono il brano in pompa magna. Peccato, perché "America" è un buon pezzo, dagli arrangiamenti volutamente tronfi ma con dietro una melodia sottile ed accattivante; l'importante è saper guardare dietro alle apparenze. D'altra parte, vi sembra che la stucchevole dichiarazione d'amore che Jaz fa all'America e al suo consumismo sia una cosa da prendere sul serio? Si cambia registro con "My Love Of This Land", un brano malinconico che ha sempre il viaggio come tema centrale, stavolta nell'accezione più intimistica; anche la musica è calda e raccolta, e particolarmente apprezzabili sono i momenti lasciati alle tastiere a chiusura dei ritornelli: di sicuro uno dei brani meglio riusciti di tutto il lavoro. Lascia invece perplessi "Stay One Jump Ahead" , dove -orrore- fa addirittura capolino un rapper. Sinceramente non si capisce se alla fine Jaz non ci abbia davvero preso gusto a fare il pappone americano che guida per Los Angeles col braccio fuori dal finestrino. Per fortuna, con "Unto The Ends Of The Earth" si torna su binari familiari, se non proprio alle suggestioni di "Brighter Than A Thousand Suns", attraverso sei minuti carichi di lirismo onirico. "The Calling" segue quella scia, anche se l'eccessiva frammentarietà ne danneggia un po' il risultato finale: in realtà si tratta del primo esperimento prog vero e proprio. L'attacco di "Obsession" ci riporta invece agli anni ruggenti del post-punk, un po' di rinnovata cattiveria che non guasta mai, per quanto la nuova confezione le dia una veste più patinata. "Tiahuanaco", cartolina di un viaggio sulle Ande, ci conduce proprio su quelle alte vette sfiorate dalle nuvole, in un'escursione piacevole e poco convenzionale, come del resto è il pezzo. Resoconto del lungo viaggio è la conclusiva "Outside The Gate", dove la costruzione progressive prende definitivamente il sopravvento, e superati i cancelli del sogno, si spalancano le porte dell'incubo: Avvolto nell'oscurità cosmica, tra fumi tossici e lampi azzurri, un Jaz più lovecraftiano che mai invoca "entità immense e prive di intelletto". Si alternano cambi di ritmo incalzanti, tastiere a tappeto, digressioni epiche di chitarra, fino alla nube di frastuono finale che, svanendo, lascia il passo ad una sonata di piano che conclude il brano e con esso l'intero lavoro.
Ai posteri l'ardua sentenza. Da parte mia, mi limito ad esprimere dubbi, prim'ancora che sulla qualità musicale, sull'autenticità del progetto rispetto alla matrice: "Outside The Gate" può davvero considerarsi un lavoro "Killing Joke" a tutto tondo, o non è piuttosto una digressione personale, un diario di viaggio non privo di fascino, ma del solo Coleman? Lo stesso Geordie sembra non essere nel pieno dell'ispirazione, ma pare che si limiti ad assecondare alla meglio le visioni del suo compagno di ventura. Quello che è certo, è che sarà solo una breve parentesi, un esperimento lungo poco più di una stagione in coesistenza con il disco tutto recitato "The Courtauld Talks" . La storia dimostrerà che "Outside The Gate" segnerà tutt'altro che il declino del gruppo, basti pensare a ciò che appena due anni dopo verrà partorito. Senza descrivere nemmeno quanto incredibilmente potenti e comunicativi i Nostri suonino ancora oggi…
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