Secondo il parere di chi scrive, i Killswitch Engage detengono un primato del tutto particolare nella scena Metal moderna: quello di essere riusciti a perdere ogni briciolo di credibilità fino a sputtanarsi (quasi) completamente in appena un decennio. E, distratti forse dall'ultima, imbarazzante uscita del combo del Massachussets, molti si sono dimenticati che se ci capita di cadere è proprio perché siamo riusciti ad arrivare davvero in alto: correva l'anno 2002, e i nostri, usciti da un primo disco di buona fattura chiamato semplicemente "Killswitch Engage", ripiombano sul mercato con quello che a parere di chi scrive è il loro più grande capolavoro, "Alive Or Just Breathing".
Viscerale e poetico fin dal bellissimo titolo, il disco in questione fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno per l'allora stagnante panorama Rock\Metal, proponendo un sound del tutto nuovo ma così già ben definito da diventare all'istante un vero e proprio punto di riferimento per un intero genere: mazzate come "To The Sons of Man", "Vide Infra", "Just Barely Breathing" o "Numbered Days" impressionano ancora oggi per la loro intensità e così lo stesso per gli episodi più melodici come "The Element of One" o la strumentale "Without A Name", tra le migliori canzoni in assoluto dell'intero repertorio della band, per non parlare di quelli che sono poi diventati veri e propri classici, tra cui le monumentali "Fixations On The Darkness", "Temple From The Within", "Life to Lifeless", la super-melodica "My Last Serenade" e l'indescrivibile "Rise Inside".
E nonostante a livello musicale il gruppo sarà in grado di riproporsi a livelli più o meno simili nel corso degli anni successivi (eccezionale il comeback con "The End of The Heartache", buono il recente "As Daylight Dies"), ciò che indiscutibilmente mancherà alla formazione dopo la pubblicazione di questo album è forse la cosa più importante: l'anima. Perché i veri Killswitch erano sopratutto nella mente e nel cuore di un solo uomo, ossia quel Jesse Leech così poco rimpianto ai tempi della sua dipartita e che tutti oggi rivorrebbero al posto del pur bravo Howard Jones; era lui il vero "ingrediente segreto", era lui il vero catalizzatore dell'intera band, era lui che si celava dietro a così tante emozioni. Perché la dura verità è che canzoni come "Reckoning" o "My Curse" non hanno neanche un decimo della potenzialità dei pezzi contenuti in quest'album, la dura verità è che "The End Of the Heartache" sembra una stupida canzone d'amore paragonata alla catartica violenza di pezzi come "Numbered Days", la dura verità è che non basta interpretare bene classici quali "Holy Diver" per farci dimenticare la bellezza di canzoni come "The Element Of One" e non sentirne la mancanza.
Il miglior disco Metalcore di sempre?
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