Coreano, geniale, eclettico, avulso al mainstream e alla grammatica del Cinema, opinabile, maleducato, animato dall'urgenza creativa più che dalla smania perfezionista. Kim Ki Duk racconta storie, raffinatissimi esperimenti che continuano a strisciare sottopelle anche molte lune dopo la visione.

La crudezza espressiva delle prime opere si estingue nella profonda, estatica rarefazione di "Ferro 3". La violenza più insensata converge adesso nel vuoto assoluto. Due scenari con un forte impatto estetico, realizzati col medesimo intento. Sono il contraltare della bellezza, il mezzo per stanarla e poterla mostrare.

"Ferro 3" (Bin-Jip), è il capolavoro di Kim Ki Duk, sublime equilibrio di forma e sostanza. La trama? Trovarsi, rapirsi, inebriarsi, perdersi, elevarsi al di là del bene e del male. Tutto ciò, senza dirsi una parola.

L'amore è una sostanza aerea che non abita nel verbo, sta tutto tra i sensi e la mente, e quel che gli amanti si dicono è come la fotografia di un quadro, un'immagine sbiadita. Muto come il fiume è quel che scorre tra Tae-Suk e Sun-Hwa, come la montagna, come Dio stesso. Ma l'uomo non è il fiume, la montagna, tantomeno Dio. L'uomo è imperfetto. Il nitore accecante che percorre il film, è infatti ispirato dal dolore:  "I miei personaggi non parlano perché sono feriti nel profondo (...). Spesso gli viene detto: "Ti amo" ma la persona che lo dice non lo pensa mai veramente; a causa di questo dolore smarriscono fiducia e consapevolezza e smettono di comunicare tra loro." (Kim Ki Duk).

E poi sono diversi, Tae-Suk e Sun-Hwa. Il primo, scorazza in moto e vive abusivamente nelle case senza inquilini, ci vive al posto loro, le tiene calde, oggi qua, domani là. Lei una casa ce l'ha, e di gran lusso, è lì che è segregata da un marito che la priva della vita stessa. Sono diversi, ma ugualmente vuoti. Partono insieme, senza null'altro volere se non partirsene via insieme. Et voilà, ecco il vuoto totale, ora sì che la parola è definitivamente non necessaria.

Ora che il campo è libero da sovrastrutture sociali e verbali, l'odissea dei giovani ha modo di svelarsi in tutta la sua drammatica sensualità. Due corpi che si sfiorano, sinuosamente, cercandosi nel silenzio. La struggente delizia dell'attesa. L'indeterminato pervade anche lo spazio. L'amore si celebra in una serie ininterrotta di non luoghi: le case vuote dei borghesi, la strada, la prigione, l'elegante e repellente dimora di Sun-Hwa e del suo aguzzino.

Il gesto è deprivato di ogni significato. Quelli rituali negli appartamenti vissuti clandestinamente (il giovane che scatta foto a sè stesso, lei che lava panni altrui). Oppure giocare a golf per strada, con una pallina che non parte mai.

La storia è così una progressiva evaporazione del superfluo. Non resta che osservare la disumana leggerezza di queste anime vagabonde che trapassa ogni ostacolo, sublimata nella danza incorporea di Tae-Suk in cella.

Questo è il cinema della disillusione. La distanza tra due amanti è incolmabile, così come quella tra le classi sociali, così come quella tra l'uomo e il Puro Spirito. Eppure ci si prova, sempre, vivere non è altro che agire in quella distanza. Kim Ki Duk scandaglia proprio questi crepacci, e lo fa con l'unico mood possibile: l'astrazione. Immaginate quindi di navigare, come su una nuvola, sulla la sostanza più misteriosa e significativa dell'essere umano, e ammirare lo spettacolo.

E allora, questo è il cinema dell'illusione.

Carico i commenti... con calma