I Kiss sono la prima e più grande look-band di tutti i tempi e, in generale, l’entità rock più spettacolare e teatrale mai esistita: se qualcuno pensa che tali siano, invece, una brutta copia come i Marilyn Manson, allora può benissimo distogliere l’attenzione su quanto segue, dedicandosi a cose, per costui, probabilmente più avvincenti.

Sono stati i Kiss accanto ad Alice Cooper (all’anagrafe Vincent Furnier), i primi capostipiti di quel glam-street metal che ha ottenuto negli states un consenso maniacale, nel vero senso della parola. Non solo pesante look e vistosi travestimenti, ma anche scelta di personaggi da parte di ogni membro (sulla scia d’un mostro sacro del glam-rock come David «Ziggy Stardust» Bowie). Questa la line-up originaria: Paul «Superstar» Stanley (guitars, vocals), Gene «Vampire» Simmons (Bass, Vocals), Ace «Space» Frehley (Guitars, Vocals) e Peter «Cat» Criss (Drums, Vocals). Per quanto concerne il sound: apparantemente grezzo, scarno ed «easy», ma con forti tinte «fun‘n’groovy», il che rendeva caldissime le roventi esibizioni dal vivo sin dagli esordi (come raccontano le cronache del tempo). A parte i lavori in studio, sono i due live albums (di cui il primo, il leggendario Alive, è un autentico olocausto concertistico) ad alimentare quella che sarà conosciuta come la «kiss-mania», un vero e proprio fenomeno di massa (ciò che veramente colpisce è la fortunata combinazione di sound e look dalla forte presenza scenica nell’allestimento di shows spettacolari, sempre più strabocchevoli e maestosi, mentre nasce e si sviluppa a macchia d’olio la rete di fan-clubs denominata «kiss-army»).

Appare più che naturale, recensire Double Platinum (1978), primo greatest hits di una band nella piena consacrazione. Delle 20 tracks (tutti estratti dai primi 6 lavori in studio) spiccano, innanzitutto, piccole gemme come “Cold Gin”, “Firehouse”, “100,000 Years” e due autentici gioielli come “Black Diamond” e “Duce” (tutte incluse nel debupt-album Kiss), nelle quali si fanno già notare le due ugole di Simmons (più selvaggia e meno dotata) e Stanley (melodica, possente e più tecnica) il più delle volte dialogare o accavallarsi simultaneamente. Inferiore alle precedenti, l’antemica “Hotter Than Hell” (inclusa nell’album omonimo) diventa un inno per molti teen-agers dell’epoca, mentre cavalli di battaglia (inclusi in Dressed To Kill) come “C’mon And Love Me”, “She”, “Rock Bottom” e la prima clamorosa hit dal titolo “Rock‘n’Roll All Nite” hanno il merito storico di aver catapultato il gruppo in testa alle classifiche statunitensi. Sempre più tosti e duri, i Kiss esibiscono un sound più heavy in “God Of Thunder” e nella celebre “Detroit Rock City” (ossia la cronaca di un folle incidente automobilistico in quella che è nota come la città dei motori, oltremodo drammaticamente preconizzante di quanto sarebbe anni dopo accaduto allo «spaziale» Frehley), anche se non manca la vena glamour ed espressiva in “Do You Love Me” e la prima ballad orchestrale, dal titolo “Beth”, composta e cantata da Criss (che dovette faticare moltissimo, minacciando addirittura di andarsene, affinchè fosse inclusa nell’album e pubblicata come retro del singolo Detroit Rock City: a sorpresa, invero, i deejays radiofonici promovuono il lato B più del lato A e danno inevitabilmente ragione al «gatto» batterista, soddisfatto per aver condotto e vinto la sua personalissima battaglia contro il resto della band). Di sicuro, in un modo o nell’altro, il gruppo è all’apice del successo (le 4 songs sono incluse in Destroyer). Decisi ad intraprendere un sound ancor più cattivo e brutale, “I want you”, “Calling Dr. Love”, “Makin’ Love” e la ballata “Hard Luck Woman” (incluse in Rock’n’Roll Over) evidenziano un eccessiva forzatura nel sound (meno eclettico) e nei testi (praticamente monocorde: amore o sesso). Il ritorno a sonorità più orecchiabili senza per questo dire commerciali è presente in “Love Gun” (dall’album omonimo) che, ad ogni modo, non intacca l’identità carismatica dei quattro mascherati e, soprattutto, non scalfisce minimamente la loro fama che, almeno negli USA, fino allora, li precedeva ovunque. Ad aprire l’album e chiudere questa recensione, il brano che considero il simbolo dei Kiss, in versione riveduta per l’occasione: “Strutter 78”

Seriamente consigliato.

Filippo Guzzardi

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