Nell'intricata giungla di registrazioni, riedizioni, riabilitazioni e via editando, l'album Dig It di Klaus Schulze (Brain, 1980), non ha goduto - come peraltro spesso accade alla musica più interessante e meno 'commestibile' - della dovuta attenzione da parte delle case discografiche, eccezion fatta per la pubblicazione in CD arricchita da una (non indispensabile) bonus track, ma di qualità sonora meno eccelsa del quasi introvabile vinile originale; eppure si tratta di un'opera imperdibile e consigliabile non soltanto ai devoti della musica elettronica o ai pasionari delle sonorità kraut e post-kraut, ma a tutti coloro i quali amano ascoltare e 'sentire', disposti pazientemente ad aspettare le emozioni e le visioni che una tale musica fatalmente, genera.

Gig It è un disco meravigliosamente datato: pur trattandosi della prima opera di Schulze interamente prodotta con strumentazioni digitali, le composizioni riescono a costruire una tessitura magmatica corposa e vivida, dove un'onnipresente, struggente malinconia si intreccia ad echi più inquietanti e contemporanei, all'interno di una cornice coerente ad un dettato di tipo melodico. Ascoltare Dig It induce, anche, a richiamare alla memoria quella carovana di splendidi artisti come: Edgar Froese, Manuel Gottsching, Labradford, Kraftwerk, Popol Vuh, Neu!, Faust, ecc., le cui innovazioni hanno consentito agli attualissimi Sunn O ))), Loscil, Fennesz, William Basinski, Alva Noto, Tim Hecker, Matmos, ecc., di continuare la sperimentazione su una base che assomiglia ormai moltissimo ad una reale tradizione.

Andiamo al disco in questione: l'opera si apre subito con un capolavoro: "Death of an Analogue" (si noti la sottile ironia del titolo) sgrana il proprio rosario tematico partendo da una nota allungata su cui si innesta un perfetto timing di batteria; è proprio dalla materia ritmica scaturiscono come delle molecole armoniche semplicissime, in un crescendo diremmo post-mahleriano che unisce una sorta di marcia solenne ad una serie di interruzioni sincopate da cui emerge, quasi un volto dalla nebbia, la trascendente, impalpabile vocoded voice di Schulze; notevolissimo ancora il lavoro di percussioni e campane che accompagnano la cadenza. Una trascinante e lenta galoppata verso territori dove visione ed estasi convivono magicamente. Non ci si è ancora del tutto ripresi quando irrompe un altro gioiello quale "Weird Caravan": qui il basso ricama un'architettura armonica molto "sixsties" sulla quale l'azione del sintetizzatore esplicitamente trattato 'a la Hammond', evoca certe meraviglie di Brian Auger, insieme alle più convincenti intuizioni dei primissimi Tangerine Dream; anche qui il tappeto sonoro lascia scivolare l'immaginazione e, se si è disposti, induce senza obbligo di artifici chimici, al viaggio.

Il lato A del vinile si chiude con "The Loope isn't a Hooker": otto minuti e venti secondi caratterizzati da una serie di loops che edificano un ponte tra le differenti materie di cui sono composte le due facciate; all'incombente ritmica, qui si aggiungono, moltiplicandosi, gli interventi "spaziali" e le interferenze con cui il brano si snoda; curiosamente il leitmotiv melodico è prodotto proprio dalla ragnatela delle percussioni, finché sopraggiunge la tastiera di Schulze a chiarire la portata generale dell'intero brano.

Qualche minuto di decompressione, il tempo di poggiare sul giradischi il lato B e si vola verso la lunga "Synthasy" con cui si conclude l'album: una suite complessa e molto più sperimentale rispetto a quanto ascoltato finora. Fin dalle primissime battute Schulze ci proietta in una cosmogonia dove angoscia e stupore si equivalgono (ma quanta ispirazione devono a Schulze le colonne sonore del cinema di fantascienza degli ultimi trent'anni!); la navicella spaziale e digitale del Nostro veleggia tra nebulose singhiozzanti, filamenti pre-dronici, decostruzioni armoniche; dai cocci percussionistici (gong riverberanti, congas appena sfiorate,episodici rullanti ) emerge con la lentezza dei pensieri astrali una sottilissima linea melodica di insopportabile dolcezza : sei, sette note allungate, poi ancora più dilatate, fino a diventare anelli senza soluzione di continuità. In un'erranza multicolore e stratiforme, il brano sembra trovare le soluzioni armoniche simultaneamente al suo stesso sviluppo: voci spezzate in cristalli rarefatti scavano - come titolo vorrebbe - dentro un abisso tematico, la cui altezza Schulze forse ha raggiunto soltanto nel primo imprescindibile Irrlicht. La danza si spegne, progressivamente, in un declinante e commovente finale.

Stare insieme a Dig It per quarantacinque minuti è un vero privilegio: il lusso di essere sottoposti a sollecitazioni emotive molto intense; il gusto di dedicare a se stessi un angolino di Universo; la rara occasione di essere testimoni di un'arte che utilizzando la fredda materia elettronica e digitale, proprio perché manipolata da un autentico artista, si trasforma in atto lirico, in suggestione, in canto e, male che vada, in benessere.

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