Due alieni a New York City…
Il progetto Krallice nasce nel 2008 dalle menti malate di Mick Barr (Orthrelm) e Colin Marston (Behold…the Arctopus, Infidel?Castro!, Gorguts). Con l’omonimo debutto (uscito per la lungimirante Profound Lore – sempre sia benedetta) i due chitarristi riescono ad aprirsi un sentiero credibile fra le fronde e i miasmi del metallo post-estremo dei nostri giorni con un black metal letteralmente da mal di testa: una ricetta che vede le due chitarre inseguirsi, intrecciarsi, scontrarsi e riacchiapparsi in un tripudio di dissonanze e repentini cambi di tempo, il tutto lanciato rigorosamente e scientificamente alla velocità della luce.
Con buone credenziali, quindi, ed un altissimo tasso tecnico, un affiatamento che ha del siamese ed una idea che può valere un’intera carriera, Barr e Marston (accompagnati dal bassista Nick McMaster e dal batterista Lev Wenstein) si fanno portatori di una visione artistica nitida e di una proposta che con il tempo, bruciato l’effetto sorpresa, si mostrerà fin troppo coerente, finendo per stuccare i palati più esigenti e bisognosi di novità, ma non deludendo affatto quanto a professionalità e dedizione alla causa. Vi parlo oggi di “Diotima”, terzo album dei Krallice uscito nell’anno 2011, lavoro che, se da un lato non porta con sé quella forza prorompente che possedeva la folgorante opera prima, dall’altro è in grado di raggiungere un discreto punto di equilibrio all’interno del percorso creativo del quartetto newyorkese.
“Diotima” non presenta grandi stravolgimenti stilistici rispetto a quanto allestito nei due tomi precedenti, se non quello di spostare l’approccio vocale verso lidi più propriamente death (metal). La voce di Barr si allontana così dalle tonalità alte di uno screaming agonizzante (che verrà impiegato solo in un paio di circostanze) per assestarsi prevalentemente sulle coordinate di un growl profondo, che fra l’altro si sposa alla perfezione con le ritmiche furibonde e con l’apocalisse sonora orchestrata. Nonostante questo, e qualche azzeccato/necessario rallentamento disseminato lungo i quasi settanta minuti di durata del platter (argh), i pregi e difetti dei Krallice rimangono quelli di sempre: per molti la loro musica rimarrà decisamente qualcosa di proibitivo; taluni continueranno a trovare prolisse, eccessivamente cervellotiche, in una parola algide, le lunghe composizioni vergate da sti nerd del black metal; altri invece, i più coraggiosi ed aperti di mente (ma forse privi di senno) adoreranno immergersi nelle spire contorte di questo asfissiante labirinto sonoro, perdervisi dentro, rincorrere la miriade di spunti alla ricerca di emozioni sempre nuove. Personalmente parlando, penso di aver attraversato tutte e tre le sensazioni, ed infine trovato una collocazione più o meno stabile a cavallo fra la seconda e la terza categoria (più spostato verso la terza, a dire il vero), in quanto ritengo che, dopo svariati ascolti, la quantità finisca per divenire qualità: da un certo punto in poi, infatti, quella catena infinita di passaggi smetterà di essere qualcosa di orribilmente insensato, ed inizieranno ad affiorare dal caos forme e strutture e un discorso di senso compiuto.
I Krallice sono così bastardi che non ci risparmiano nemmeno nei due minuti del non-titolato brano introduttivo, che a ben pensarci poteva essere qualcosa di più paraculo e seducente, ed invece no: la materia si cui si compone questo antipasto è la medesima, in piccolo, di quello che saranno le sei lunghissime tracce, di cui quattro abbondantemente sopra i dieci minuti (ari-argh!), che seguiranno.
In “Inhume”, appena al di sotto dei sette minuti, il rifferama schizoide ed in continuo mutamento, supportato dalle ritmiche serratissime, richiamano la maestosità dei primi Emperor quanto le secrezioni de-costruttive dei tardi Emperor; nella sua seconda parte, i vari stop&go e le chitarre ronzanti e il drumming marziale riprendono pari pari le lezioni immortali dei Morbid Angel, con un risultato, fra dissonanze e fulminei cambi di tempo, che non si discosta molto – se si vuole utilizzare delle categorie meno obsolete – dall’operato dei maestri transalpini Deathspell Omega, ma in un’ottica così oltranzista da chiamare in causa i vicini di casa Liturgy (che sono di Brooklyn), i quali pubblicavano il loro acclamato “Aesthethica” proprio nel medesimo anno di uscita di questo “Diotima”.
Il terzo brano “The Clearing” si distingue, subito dopo l’immancabile inizio al fumicotone, per un evocativo rallentamento in cui spicca l’ispirato screaming in una delle sue poche comparsate. Il momento è decisamente pregno di pathos, e sicuramente un merito va al poderoso basso (probabilmente a sei corde, considerata la profondità delle note più grevi) di McMaster, paradossalmente molto presente, nonostante lo sferragliare della corsa forsennata delle chitarre. Il brano presenta un’altra peculiarità: quasi alla fine si rinviene, senza clamore, l’unico assolo di chitarra dell’album.
La title-track, che osa addirittura indugiare su tempi medi per diversi minuti (per poi esplodere e nuovamente collassare in intrecci chitarristici inverosimili e inavvicinabili dai più) fa da spartiacque, dischiudendo dietro di sé la fase più coinvolgente dell’album. “Litany of Regrets” (quinta traccia, la più lunga) è un tour de force nel vero senso del termine: percorre i suoi quasi quattordici minuti senza mai sfiorare il freno, ricordando il Conte più sfiancante (quello di brani come “Hvis Lyset Tar Oss” – la canzone). L’impalcatura sta però miracolosamente in piedi, grazie soprattutto ai giochi e agli effetti a cui sono sottoposte le chitarre. Rimane il mistero di come Wenstein possa reggere una prestazione fisica di questo tipo. E sarà un vero sollievo l’attacco melodico della successiva “Telluric Rings” (altri dodici minuti e da considerare collegata concettualmente alla precedente, come se fosse un unico brano di venticinque minuti – aiuto!), un incipit un po’ ulveriano, un po’ alcestiano, forse l’unico momento propriamente “post” dell’album, presto fagocitato dalla furia distruttiva delle ritmiche e dall’epicità di melodie che a tratti sfiorano un’intensità degna dei maestri del genere.
L’inizio del gioiello “Dust and Light” (settima ed ultima traccia) è affidato nuovamente alla poetica sfrigolante di riff che incarnano un’attitudine squisitamente shoegaze, ma sarà solo il miraggio di un istante, dato che stiamo parlando del brano più canonicamente black-metal del lotto, vuoi anche per il ritorno in cattedra del disperato screaming di Barr (corde tirate allo spasimo), protagonista per tutta la durata del brano: dieci minuti di nervi a fior di pelle e gelo scandinavo (grida lancinanti che si perdono nel brusio di chitarre e nel tintinnar di piatti, laddove la velocità e la violenza stordente smaterializzano finalmente tutto quel pragmatismo e quella lucidità sfoggiata da sti quattro secchioni), la degna conclusione (senz’altro il picco emotivo) di un lavoro che farà certo la gioia degli estimatori più audaci dell’US Black Metal, sebbene gente come Agalloch e Wolves in the Throne Room, quanto a capacità di proiettare immagini nella mente e generare emozioni sotto la pelle, facciano parte di un altro pianeta.
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