E' una questione di punti di vista.

C'è chi dice che uno dei grossi problemi di questa decade (ormai molto inoltrata) è il non avere uno stile/mood riconoscibile che la caratterizzi.

C'è chi invece trova che questa caratteristica sia un punto a favore.

Una cosa è certa e cioè che questi anni "10", in questo senso, sono la prosecuzione naturale dei precedenti "0".

Sarebbe bello iniziare qualsiasi recensione avendo un'idea chiara di quello che si debba scrivere (e in effetti di solito ce l'ho) ma sarà che i Lamb sono una di quelle espressioni artistiche in cui proprio non mi riesce essere distante e oggettivo o forse perché "Backspace Unwind" è uno di quei dischi (e me ne vengono in mente molti solo in questa annata: da quello di Aphex Twin a quello di Neneh Cherry) che arriva a noi non al mutare delle maree ma semplicemente fuori tempo massimo.

Per carità, ci sono solo tre anni a separarlo dal (notevole) precedente "5" ma in questa epoca frettolosa in cui i giorni diventano settimane, e così via, si fa presto a dire che chi si ferma non è perduto ma solo arrivato che arriva qualche vero-finto-profeta del dub (o di quel che più vi aggrada), che fino a Luglio magari era impegnato con la Maturità, a destabilizzare (o a provare, senza riuscirci, a farlo) le certezze.

Il fatto è che io dai Lamb voglio un disco dei Lamb: nulla di più, nulla di meno. Un po' come quando si torna un luogo che si è particolarmente amato e non lo si vorrebbe trovare cambiato.

In un certo senso questo discorso è pericoloso perché "Backspace Unwind" continua il filo logico intrapreso con "5" e cioè cerca un equilibrio e una svolta attualizzante tra quella che era l'elettronica novantina in zona Bristol e quella coeva continentale (soprattutto in quell'area geografica che divide Parigi da Amsterdam) con il fil rouge della voce Folk di Lou e l'attitudine Free Jazz di Andy. Quindi chi cerca reminiscenze limpide e pure dei primi quattro dovrà accontentarsi di piccole sensazioni, soprattutto in fase di arrangiamento, e di quella continua sorpresa che sono le acrobazie vocali di Lou, appunto.

Già dal riff di "In Binary" lo si capisce: quello che un tempo aveva un senso ora, in questi tempi di indeterminazione, può prendere forma solo se lo si dimentica. Una cosa curiosa per un act che nei '90 sembrava destinato (alle orecchie dei distratti) al semplice orbitare.

Una costante invece è la ricerca ossessiva della giusta melodia (caratteristica presente già dai primi due, i più ostici all'ascolto tra i loro, dischi): componente essenziale del loro sound mai digerita dai duri e puri di certo noise elettronico ma che è inevitabile marchio di fabbrica e si palesa già dal singolo "We Fall in Love".

Un album, al solito, sussurrato e non gridato dove pare svanita la paura dei quarti a favore di un mood che di malinconico ha solo l'aura autunnale in bilico con il desiderio di una nuova Estate il cui arrivo risuona già in lontananza: un'attitudine commerciale su cui loro non hanno mai mostrato imbarazzo neanche in anni ben più tosti di questi e che quindi sarebbe illogico negare.

Dal mio punto di vista (di fan, ripeto: non sto qui a nascondermi dietro a un dito) un disco senza punti deboli.

Per tutto il resto ci sono l'incantevole "What Makes Us Humans" o la classicheggiante "Doves & Ravens".




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