Con l’intento di approfondire - in maniera quasi del tutto cronologica - la filmografia di Larry Clark, mi sono approcciato a Wassup Rockers con l’immagine viva e nitida di due dei suoi film precedenti: il debutto Kids, ed uno dei successivi, Ken Park.
Per chi non conoscesse il regista in questione, Clark è un controverso personaggio prima della fotografia e poi del cinema, consacrato da un progetto fotografico del 1976 denominato Tulsa (dall’omonima città dell’Oklahoma), il cui tentativo è stato di raccontare - attraverso immagini forti e rigorosamente in bianco e nero - la realtà dei tossicodipendenti (di cui peraltro anche lui faceva parte) della sua città natale.
Un crudo verismo, insomma, che ha scandalizzato e forse anche incuriosito la società americana del periodo, e che si riflette a molti anni di distanza anche sulle sue opere cinematografiche, prima fra tutte il già citato Kids (1995).
Chi conosce i film di Clark sa che il tema sotteso, il fil rouge che lega ogni sua opera, è il tentativo di raccontare un degrado sociale, economico e relazionale di adolescenti e teenager alle prese con droga e sesso e rapporti interpersonali; tutto questo su uno sfondo sempre ben definito, quello dello skateboard e della musica punk.
I protagonisti di Wassup Rockers non fanno eccezione: sono tutti skaters (tutti latino-americani) e tentano di portare avanti una band punk rock casalinga, nel classico garage del loro suburbia. Gli elementi che potremmo definire “di scenario” rimangono quindi invariati, mentre è la trama a tentare di sviluppare una questione inedita per Clark: il contrasto e la contrapposizione tra i ragazzi del ghetto di Los Angeles e i loro coetanei di Beverly Hills. La classica dicotomia, insomma, tra ricchi e poveri, raccontata da ore ed ore di filmografia e questione quantomeno spinosa, soprattutto se il tentativo è di sviluppare un punto di vista originale.
Clark tenta un approccio diverso, dal momento che i suoi personaggi hanno tra i quattordici e i diciassette anni, e possono muoversi con una relativa libertà nei dialoghi e nelle movenze, così come hanno sempre fatto gli adolescenti del regista, in sequenze che sembrano più veri estratti documentaristi - ed infatti molti dialoghi sono improvvisati - che scene recitate.
Il tentativo di Clark, però, non può considerarsi totalmente riuscito, per una serie di aspetti. Innanzitutto, l’accento quasi forzato posto sullo “scenario” a cui si accennava precedentemente: se il punk e lo skate rimangono di contorno in Kids ed in Ken Park, in un ottimo gioco di immagini in cui si faceva capire che quella era la vita quotidiana dei ragazzi, in Wassup Rockers assumono un ruolo prominente che ne fa quasi scadere il senso. Spesso si ha l’impressione di un’estetica, un manierismo, quando si assiste a lunghissime scene solo di tricks sullo skate, che sembrano estratte da un video promozionale della Vans. Anche la colonna sonora, rigorosamente punk, sembra accentuare questo effetto, soprattutto per l’inserimento - anche qui, un po’ forzato - di un punk hardcore (diverso dal pop punk di Ken Park, per esempio) che non ha ragion d’essere se non di tentare di connotare, in teoria, lo sfondo in cui si muovono i protagonisti.
Sfondo che, però, diventa ancora di più, suo malgrado, elemento principale - e quindi fa cadere il castello di carte della già fragile trama - quando in quasi due ore di film la prima è passata a inquadrare l’ambiente del ghetto con una prova di recitazione degli attori quantomeno scadente (forse perché non madrelingua inglese?) e piatta.
Tutto questo, quindi, per portare alla trama vera e propria, cioè il fatidico incontro dei due mondi diversi, che avviene in maniera brutale e molto poco realistica: una ragazza, affascinata dal sedere del protagonista skater - Jonathan - lo invita nella sua villa ad Hollywood.
L’incontro-scontro ha come oggetto le questioni trite e ritrite di un crimine diffuso e di una povertà dilagante a South Los Angeles, in netto contrasto con la mastodontica villa già citata; mettere in bocca queste parole agli adolescenti protagonisti le fa scadere ancora di più, pur con l’alibi - tipica di Clark - di una ingenuità onesta e sincera, che qui è però solo veicolo di una collezione di banalità sull’ipocrisia dei ricchi e sugli omicidi nel ghetto, a cui i ragazzi hanno sempre assistito e di cui non si sorprendono così tanto.
I ragazzi affrontano in sequenza una serie di avventure poco plausibili, dove passando da una casa all’altra riescono a collezionare solo fallimenti, risse e addirittura un amico morto. Ma l’uccisione avviene con una tale tranquillità - e fa sorridere la “rete di contatti” messicana che si sviluppa subito dopo - che appare di plastica, finta. Come finta sembra anche la morte nella vasca da bagno di una ricca signora, che accoglie uno dei latinos, in una scena quasi da tragicommedia.
E' finto anche quel sorriso ebete dei latino-americani nei confronti della vita, anche nei momenti più drammatici; nelle intenzioni vorrebbe forse essere un modo per mostrare il distacco e menefreghismo adolescenziale in una realtà in cui è importante che sia l’io a sopravvivere, non il gruppo. Eppure non ci riesce a credere fino in fondo, vista l’estrema compattezza del nucleo che, però, non si scompone mai, né nel caso dell’amico ammazzato, né del fratello arrestato.
Clark cade quindi a causa di un tema non facile da raccontare, che esula forse dalle sue corde abituali ma che appare ancora molto vivo oggi così come nel 2005 - anno del film - e che necessitava e necessita di un racconto maturo. Racconto che purtroppo il regista non riesce a fornirci in maniera efficace.
Sarebbe stato più interessante, per esempio, interrogarsi sul difficile rapporto coi neri rapper del ghetto - che è poi tutto il circolo attorno a cui gira l’appellativo rockers - piuttosto che tentare di porre differenti questioni ma non risolverne nemmeno una. L’idea, dal già citato utilizzo esagerato dello sfondo a sfilacciamenti in questioni come il lavoro di stripper della madre di uno degli skaters o i frequenti incontri con la polizia, è che si sia cercato di mettere insieme troppe questioni, troppi punti caldi, senza riuscire a ricondurli in un disegno unitario.
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