I grappoli d'uva stanno marcendo sulla pianta, gli acini si deformano orribilmente. Sembrano cadaveri sfigurati da una morte violenta. Eppure, quei frutti in putrefazione produrranno bevande deliziose, e proprio la loro agonia li renderà più zuccherini.

La morte come atto artistico, come componente non solo essenziale, ma preponderante della vita. La distruzione della casa di Jack è momento fertile tanto quanto la sua edificazione, anzi di più. E per un gusto etico-estetico ribaltato, il protagonista arriva a torturare persino le persone che gli sono vicine, la sua “famiglia” (non meglio precisata) e le sue fidanzate.

La Bibbia letta da satana, questa è la visione di Jack. E il protagonista parla da fuori campo, mentre sullo schermo scorrono le immagini lente dei suoi crimini, si confessa a un interlocutore e argomenta filosoficamente - ricorrendo a immagini e metafore variegate - la sua condotta di vita.

Von Trier trasforma le gesta di un serial killer particolarmente zelante in una battaglia universale tra Eros e Thanatos. Stavolta, più che ignorare completamente la ragione e la morale comune, le sfida, le mette in competizione in un dialogo serrato. Se lo spettatore riesce a superare lo shock del sangue, se riesce ad astrarre dalla situazione contingente e proiettare su di sé le pulsioni distruttrici, si renderà conto di quanto ha senso, non tanto la tesi di Jack, ma la dialettica tra le parti. Anche lui, pecorella presunta innocente, è parte della luce come dell'abisso. Ed è per questo necessario dare voce e significato all'infinita, imperterrita putrefazione delle cose.

Il regista non è mai stato così diplomatico, mostra l'orrore e la sua condanna, dà voce al demonio e alle sue vittime, empatizza (o tenta di farlo) e non giudica nessuno. La trovata del sovrapporre le voci fuoricampo che commentano è brillante e dà al film una cadenza meditabonda: si tratta di una continua ricerca di senso, che vive anche delle riprese con camera a mano e zoom, che danno incertezza e irregolarità, mentre i silenzi disegnano uno spazio a-morale in cui si cerca di aggrapparsi a qualcosa. E in quel vuoto la morte e l'orrore appaiono nella loro familiarità, perché non ci sono sovrastrutture e convenzioni che li nascondono. Le grida delle vittime si perdono nell'indifferenza generale (poi, in ultimo, diventano un sibilo). Le musiche, improvvise e baldanzose, fanno da controcanto satirico nei confronti delle norme morali costituite.

Come nel cinema migliore, il film chiede di essere completato da chi lo guarda. E il regista ci dà tutto il tempo per assaporare in anticipo il gusto acre del sangue. Mette tigre e agnello di turno in spazi ristretti, piccole gabbie da cui non c'è scampo (che sono il mondo), oppure in situazioni in cui la preda è comunque condannata, perché il predatore è in posizione troppo vantaggiosa. Poi ci fa aspettare, torturandoci nell'attesa dell'inevitabile atto violento. In quei minuti di ansia e sperdimento lo spettatore vaga, alla ricerca di un perché. Lo aiutano le voci fuoricampo, sempre dialetticamente contrapposte, ma sta a lui comprendere quanto è necessario (o meno) che la tigre cacci e si sfami.

La vera provocazione è trasporre la ferocia dell'animale nell'uomo che, in teoria, delibera e sceglie. È una forzatura, ma forse nemmeno tanto, perché la chiave di lettura è più alta e universale: Jack condensa in sé tutte le deviazioni possibili, è simbolo e sublimazione del “male”. Inesorabile, non per un raptus, ma perché rappresenta una componente essenziale del ciclo vita-morte. Per questo trovo perfetta l'immagine dell'uva in putrefazione che produce distillati pregevoli (che sono poi l'arte che Jack intende fare dei suoi crimini, attraverso fotografie, sculture, manufatti).

Quella del protagonista non è una personalità coerente, affastella su di sé una quantità inverosimile di tratti devianti, dall'ossessività ai complessi emotivi, dalla lucida spietatezza all'amore per l'arte. È un monstrum concettuale, un'idea filosofica. E non rappresenta solo la necessità del male, ma ne vuole enfatizzare la bellezza, la forza estetica. Una tesi di cui il film ne è primo esempio: il gusto dell'orrido e la curiosità morbosa insita nell'essere umano sono innegabili. Quindi la morte non solo come elemento ontologico imprescindibile, ma anche come oggetto artistico, capace di suscitare l'interesse e la curiosità dell'uomo. Noi che guardiamo questo film ne siamo l'esempio immediato.

Ambizioni altissime che rischiano di non essere capite in alcune fasi del film, quando la cadenza diventa meno meditabonda e più “thrilling”. Nella seconda metà il tran-tran diventa un po' stucchevole. Si poteva tagliare una mezz'ora di girato senza perdere nulla di concettuale. E per di più, la parte finale sembra vanificare il discorso sostenuto fino a quel momento, con una svolta “metafisica” che non può essere accettata se non come ulteriore provocazione.

(Anticipazioni sul finale) C'è la Catabasi, e la voce dialogante non è uno psicanalista, ma Virgilio, che accompagna Jack all'inferno. Una scelta dantesca che non ha nulla a che fare con l'impostazione abituale di von Trier. O meglio, se l'inferno fosse stato la Terra stessa (come sembra in un primo momento), allora sarebbe stato un inganno apprezzabile e coerente. Ma c'è invece una voragine di lava, che non si riesce proprio a comprendere, se non come ulteriore provocazione, ma non se ne colgono i segnali.

7.5/10

Carico i commenti... con calma