Ciò che ha colpito me, spettatore ignaro di tutto, è l’apparente casualità del primo incidente e la successiva vertiginosa crescita di portata degli eventi.


  • Dividerò provvisoriamente il mio racconto in cinque incidenti scelti a caso in un periodo di dodici anni.

Il racconto di questa storia ha inizio con queste parole pronunciate da una voce fuori campo. A tutto schermo, nel frattempo, appare la scritta: 1º INCIDENTE.

Ad aver parlato è Jack, voce narrante e protagonista degli episodi narrati. Sta parlando con qualcuno, lungo un itinerario, una guida (Bruno Ganz) che ne ha già sentite tante: “Non credo che potresti dirmi niente che non abbia sentito in precedenza”, gli dice.

In ogni caso, mentre vanno avanti allegramente, Jack (uno straordinario Matt Dillon), voce narrante, ricorda e racconta degli episodi della sua vita, a giochi ormai fatti.

Mentre le due voci fuori campo si eclissano, la scena si apre su una strada di campagna che Jack stava percorrendo circa dodici anni prima: qui incontra una donna (Uma Thurman) che, costretta da un guasto meccanico, chiede soccorso, ma il cric si è rotto. Lo convince a darle un passaggio e durante il viaggio in macchina non smette di parlare neanche per un attimo:


  • - Ops, è stato uno sbaglio. – dice lei.
  • - Sbaglio? -
  • - Sì, salire in macchina con lei: non è quello che dicevano le mamme, di non salire in macchina con gli sconosciuti? -

Lui sembra silenzioso, lei una donna petulante, importuna e invadente. Potrebbe essere un serial killer, insinua lei.

Eppure, il viaggio prosegue senza intoppi fino alla prima e alla seconda destinazione. I due fanno avanti indietro dalla macchina al paese, dal paese alla macchina e, ancora, dalla macchina a… ma le provocazioni continuano e il cric è troppo a portata di mano di Jack: il materiale è nelle mani dell’architetto, direbbe lui.

Questi sono i fatti che accadono nei primi dieci minuti The house that Jack built; un film che inizia con cautela per non perdere nessuno, un film in cui gli eventi sono destinati a complicarsi e a elevarsi in violenza ed efferatezza. Nel resto del film si vedrà la rappresentazione dei cosiddetti cinque incidenti di Jack, di cinque cosiddette opere d’arte selezionate tra le sue innumerevoli.

Alle rappresentazioni sceniche-autobiografiche degli incidenti si alternano scene riflessive e di carattere universale, attraverso cui ogni azione disturbante compiuta da Jack nella propria vita, viene riletta, interpretata e giustificata dalla sua mente di architetto, affetto da disturbo ossessivo compulsivo e colpito da impulsi ripetuti e persistenti. Queste riflessioni alternano momenti di epifanica lucidità ad altri momenti di abusati cliché letterari. Gli spunti sono tanti, esteticamente bellissimi, e sono offerti in un tentativo di spiegazione di ciò che sembra a-normale.

Le teorie universali di Jack germogliano dalle riflessioni speculative sulla propria condizione e creano affascinanti analogie, come la metafora delle ombre e dei lampioni:


  • Un uomo che cammina in una strada illuminata da lampioni, quando si trova perpendicolare alla luce di un lampione uccide. L’ombra davanti a lui cresce: è il suo piacere. Ma avvicinandosi al lampione successivo, dietro di lui, inizia ad affacciarsi il dolore fino a quando il piacere svanisce e il dolore è più nero e intenso. Poi raggiunge il lampione successivo, e uccide.

Metafora che è solo una delle innumerevoli spiegazioni: dalle speculazioni pianistiche sulla multiformità di un’arte che comprende tanto omicidi quanto sublimi opere nascoste si passa alla divagazione su una pioggia salvifica per giungere ad un elenco lucido e ammirato dei propri tratti caratteriali (egotismo, oscenità, rudezza, impulsività, narcisismo, intelligenza, irrazionalità, manipolazione, superiorità verbale) proposti in una messa in scena di dylaniana memoria; si va dalla riflessione sulla volontà della materia che influenza il lavoro dell’architetto alla personale esegesi della metafora della tigre e dell’agnello di Blake. E così via.

Una rappresentazione magistrale, ovvero il doppio sguardo di Lars: In questo film lo sguardo di Lars colpisce in due modi. La parte scenica è caratterizzata dall’uso della macchina a mano è più che un residuo di quello che fu il dogma 95. Invece in quella riflessiva risulta ampio e diffuso anche il ricorso al montaggio analogico, con buona pace di quel genio di Villaggio, che ne ha immortalato la qualità comica della parola: le immagini faunistiche, artistiche, musicali sono evocative e fanno esplodere il racconto verso innumerevoli direzioni altre.

E per chi si chiede: si sentiva il bisogno di un’altra pellicola su un serial killer? Io dico che questa non è un’altra pellicola, questa è la pellicola, la pellicola di Lars Von Trier.

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