Bastano pochi minuti per capire la statura di questo film. La sua grandezza sta infatti principalmente nelle scelte formali del regista Nemes. Raccontare l’Olocausto infatti non è di certo una cosa nuova, ma farlo in questo modo ha ben altro significato. Sono due gli elementi decisivi: da una parte la visione dell’orrore, dall’altra l’immedesimazione nel protagonista.

Nemes riesce a mostrare il baratro orrorifico di Auschwitz senza scadere nel documentaristico e senza perdersi nell’esibizione del macabro. I corpi, il sangue, le cataste di morti sono presenti nel film, ma vengono osservati dalla cinepresa con un occhio distratto, non sorpreso di vedere quegli orrori perché fanno ormai parte della sua quotidianità. Lo spettatore vede qualcosa, ma senza che quel qualcosa diventi oggetto principale della sua attenzione (o meglio, di quella di Saul, vedi oltre). L’orrore filtra senza però essere amplificato.

Per rendere possibile questo punto di vista del tutto peculiare il regista deve necessariamente immedesimarsi nel suo protagonista. Solo così è possibile giustificare uno sguardo ormai disincantato su simili nefandezze. Ed è per questo che la cinepresa segue pedissequamente Saul, gli sta alle spalle come un angelo custode. Entrando così a fondo nella psicologia del protagonista e direi quasi nella sua corporeità, è possibile per Nemes guardare a ciò che circonda Saul con uno sguardo distaccato. E di conseguenza questo sguardo funziona perfettamente nella resa estetica e morale del film, che vuole mostrare l’orrore senza pudori ma anche senza enfasi. Si percepisce il distacco di Saul, ma nondimeno si rimane quasi avvelenati dalle immagini, sfocate e sfuggenti, dell’eccidio continuo.

Al pari, l’adesione allo sguardo del protagonista funziona anche come ulteriore significante della sua psicologia. Le inquadrature sono sempre rivolte verso il basso, verso gli angoli, come se non osassero aprirsi alla visione piena del mondo circostante. Saul si muove come un ratto nel lager e così fa la cinepresa, che filtra perfettamente tutto il suo sentire e percepire.

Il film si distingue anche per la delicatezza con cui introduce i temi e i concetti. L’alienazione di fronte alla consuetudine dell’orrore e la successiva ripresa di coscienza morale da parte del protagonista sono espresse quasi implicitamente: spesso vediamo Saul di spalle e il suo viso è necessariamente inespressivo, ma la forza della sua riscossa morale è testimoniata dal suo pellegrinare inesausto alla ricerca di un rabbino che dia sepoltura al bambino deceduto. Si arriva a postulare un messaggio profondamente nichilista ma al contempo positivo: nella perdita di senso, nella scomparsa di ogni valore, dignità, significato, identità, anche solo tentare di ridare importanza alla sepoltura umana è un gesto rivoluzionario. Non importa se è destinato al fallimento, nel vuoto assoluto di Auschwitz il sentimento di Saul è un punto di partenza, un rifiorire timidissimo dell’umanità nel bel mezzo del deserto morale nazista.

Sicuramente un film difficile da metabolizzare: lo sguardo del regista che segue Saul si costringe a movimenti spesso traballanti, a lunghi piani sequenza in ambienti cupi e filtrati da una fotografia che accentua i grigi. Ma è uno sforzo necessario per comprendere e sentire la portata esperienziale del film. E quando si tratta di scenari come questo, l’esperienza cinematografica stessa non può che essere dura e logorante.

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