Paragonati a quelli del Medioevo (con i loro sadici marchingegni e spettacolari messe in scena), i supplizi che gli eretici della poesia francese di fine '800 dovettero subire paiono ben poca cosa: isolamento (spirituale oltreché fisico), fame (di riconoscimenti prima che di qualsivoglia vettovaglia), autofinanziamenti per la pubblicazione dei loro manoscritti.

Ma c'è una cosina però. Una cosina che forse non avrà lo stesso impatto emotivo di una Vergine di Norimberga o di un Toro di Falaride sulla immaginazione dei posteri, ma la cosina c'è.

Dove lo mettiamo infatti il travaso di bile? La certezza del valore della propra opera e l'inutilità dei tentativi di emersione, frustrati (innanzitutto) dalla stolidità delle masse che permettevano alle linee direttrici di critici prezzolati (quando non semplicemente ottusi) di sostituirsi alla loro sensibilità e capacità di giudizio. L'assordante silenzio dei sedicenti fratelli artisti; il loro volto soddisfatto, compiaciuto e compiacente solo verso tutto ciò che fosse comme il faut.

Il più grande errore commesso da Baudelaire è stato quello di diventare Baudelaire; diventarlo definitivamente, irrevocabilmente, compiutamente. Di aver stabilito (suo malgrado?) un canone, di aver suggerito agli editori ed ai letterati parigini (ubriachi di spleen metropolitano e cinico dandysmo) un'ortodossìa che ha relegato ai margini chiunque dimostrasse scarsa affiliazione ai miasmi di quei suoi fiori malsani.

Il ghigno sprezzante che si perdeva nel rollìo iconoclasta degli "Amori Gialli" di Tristan Corbière, le ebbre luccicanze di un Dioniso fanciullo che sostanziavano "Le Illuminazioni" di Arthur Rimbaud e infine "I Canti di Maldoror" di Isidore Ducasse (aka Conte di Lautréamont): eccovi in tutto il loro splendore le tre teste di Lucifero che masticavano e sputavano senza soluzione di continuità il Simbolismo francese, eccovi la triade degli eretici.

Se i primi due furono (ri)scoperti di lì a pochi anni dal vangelo apocrifo di Verlaine ("I Poeti Maledetti"), Lautréamont non ebbe questo onore (ma solo perché Paul non ebbe mai modo di conoscere la sua opera) e bisognerà attendere Breton, Aragon e la pleiade dei surrealisti per diffondere il suo Verbo.

I Canti di cui si compone questo libro sono 6, ognuno diviso in strofe di una nera, monologante, fluviale, immaginifica, selvaggia prosa poetica. È un libro ridondante, contorto all'inverosimile, ingenuo e goffo a tratti, febbrile sempre; un libro che sbraita, delira e puzza... Ed è un capolavoro.

Pubblicato nel 1869 quando Isidore Ducasse aveva 23 anni, questo lavoro è quello di un rivoltoso, di un dinamitardo, di un visionario insofferente alla direzione che stava prendendo la poesia, o meglio, di un nichilista che voleva fare a brandelli la poesia stessa.

E per farlo scelse addirittura una doppia maschera: si ribattezza Conte di Lautréamont e inscena una specie di teatro degli orrori; una lunga, strabordante, oscena, anti-lirica scrittura attribuita al fantomatico Maldoror (allusione forse al "mal d'aurora"), incarnazione della rabbia, del morbo che non dà requie all'autore.

Isidore Ducasse è un poeta, il binomio Lautréamont/Maldoror è la sua patologìa.

Per rendere l'idea del nostro maudit e definirne lo stile prenderemo in prestito le sue parole e diremo che Isidore è "bello come i due lunghi filamenti tentacoliformi di un insetto, o piuttosto come una inumazione precipitosa; bello come la legge della ricostituzione degli organi mutilati e, soprattutto, come un liquido eminentemente putrescibile". Una bellezza e una scrittura che, essenzialmente, hanno due bersagli.

Dio, le Créateur, visto da Lautréamont assiso "su un trono formato da escrementi umani e d'oro, dal quale regna con orgoglio idiota, con il corpo ricoperto da un sudario fatto con lenzuola non lavate d'ospedale". Un Dio crudele che uccide per il gusto di farlo e di cui troppo spesso l'autore ha visto "i denti immondi battere dalla rabbia e la barba piena di cervella".

Ma non c'è scampo neppure per gli esseri umani, queste "bestie feroci", queste "miserabili caricature del bello, che prendono sul serio il risibile ragliare delle loro anime sovranamente spregevoli". Esseri umani che Maldoror si diverte a torturare e uccidere con un puntiglio da maniaco seriale e che Lautréamont descrive nei minimi particolari; un de Sade in delirio di onnipotenza, un Torquemada in preda a spasmi epilettici.

Ce ne sarebbe poi una terza di vittima che "I Canti di Maldoror" non risparmiano: la poesia. Il metaforismo spregevole e deformato, le similitudini pescate dagli anfratti più sozzi e immondi del regno naturale, l'immaginazione sfrenata che tende al gotico più oscuro e al sadismo più bieco, fanno di questo libro una pozza melmosa che non prende alcuna direzione, una cloaca a cielo aperto con cui l'autore si diverte a stordirci con il suo olezzo.

Ma, visto che parliamo di eretici, proviamo a confrontarne le dottrine.

Se in Rimbaud le parole venivano suggerite dalla visione che sradicava il simbolo dal suo senso più immediato e lo proiettava in altre orbite attraverso le sue amare burle, in Lautréamont pare accadere il contrario: è il turbine incessante del suo soliloquio errabondo che pian piano scolpisce le visioni di ogni strofa e che, in certi momenti, sembra sgomentare lo stesso autore.

Il sarcasmo che Corbière vomitava sulla cattedrale simbolista era condotto sempre da strumenti del fare poetico utilizzati per smontare i simboli pezzo per pezzo e rimontarli atrraverso la sua acre fumisteria; Lautréamont invece corrode, deturpa e fà a pezzi gli stessi elementi di cui si serve normalmente un poeta e conduce il linguaggio a una sorta di autofagìa congenita.

Oggi il libro di Lautréamont non è più quella putrida e incomprensibile mostruosità così come doveva apparire ai suoi contemporanei, ma si resta comunque sbalorditi di fronte alla densità della sua scrittura, alle immagini che sembrano rimbalzare continuamente sulla superficie di specchi diabolici, alle improvvise accelerazioni che travolgono il lettore come una colata lavica.

Morì un anno dopo, a 24 anni, solo, in circostanze mai del tutto chiarite (omicidio? Suicidio? Tubercolosi?). Stava lavorando alla prefazione di quella che doveva essere la sua seconda opera e di cui rimangono solo due componimenti che sembrano rinnegare tutto quanto esposto in questi Canti. Chissà, forse la sua conversione?

Morì invece da eretico, un eretico che aveva troppo visto per poter continuare a vivere.

L'eretico è morto, lunga vita all'eretico!

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