Recentemente avevo sostenuto quanto la pubblicità volta a reclamizzare un'opera di imminente uscita (film e quant'altro) possa risultare ingannevole. Lo spettatore si fa certe aspettative, per poi trovare un prodotto culturale non del tutto soddisfacente. Ma può anche capitare di trovare un film, come quello che mi accingo a recensire, poco pubblicizzato ma degno di nota. È il caso di "Gli Stati Uniti contro Billie Holiday", diretto da Lee Daniels ed ispirato al libro "Chasing the scream" di Johann Hari, pubblicato nel 2015. E non so se il nome di Billie Holiday possa suonare inedito a qualche giovane della generazione "millennial", ma certo le peripezie esistenziali di una delle maggiori vocalist afroamericane del secolo scorso meritano di essere rievocate proprio per il fatto che il razzismo, sia negli Usa sia altrove, non è proprio scomparso.

Già mezzo secolo fa, nel 1972, un film dedicato alla Holiday dal titolo "Lady sings the blues" era uscito e a vestire i panni di Billie era stata una magistrale Diana Ross. Questa volta invece è la cantante Andra Day ad incarnare egregiamente (pur non eguagliando Diana Ross) la divina vocalist che, all'avvio della trama verso la fine degli anni '40 del secolo scorso, è già nota nei locali notturni di Harlem come ottima interprete di blues e jazz. Potrebbe benissimo, con la sua voce profonda ed abrasiva, reggere il confronto con la grande Ella Fitzgerald e avere la strada spianata per un meritato successo commerciale. Ma il problema è che nel suo vasto repertorio c'è una canzone intitolata "Strange fruit" composta nel 1939 per denunciare la crudele pratica del linciaggio verso malcapitati afroamericani nel profondo Sud degli States. Il testo è troppo esplicito e tale da generare turbolenze in certo pubblico, ma ovviamente non si può arrestare una cantante per quanto interpreta nei suoi concerti. Ed allora i piedi piatti dell'FBI di Hoover escogitano lo stratagemma di colpire Billie per i suoi vizi, ovvero la propensione a far uso non solo di alcoolici, ma anche e soprattutto di sostanze pesanti come l'eroina. Ne seguono pedinamenti, arresti, processi in tribunale seguiti da detenzioni in carcere che la protagonista regge con la massima dignità e senza recedere dalla sua giusta determinazione di continuare ad eseguire dal vivo "Strange fruit". E così sarà finché, ricoverata in ospedale per cirrosi epatica, morirà nel 1959 a soli 44 anni non senza subire l'onta di essere arrestata dall'FBI sul letto di morte per "detenzione di sostanze stupefacenti Come dire : essere vittima di un sistema sadico, ottuso e reazionario.

Il film, tecnicamente impeccabile pur avendo qualche farraginosita` in alcuni snodi della vicenda, si regge sull'ottima interpretazione di Andra Day (premiata nel 2021 con il Golden Globe come migliore attrice, proprio come già capitato per lo stesso ruolo a Diana Ross nel 1973) molto brava nell'incarnare la mitica Billie. Che emerge come una cantante tanto mirabile, quanto donna infelice e fragile (aveva anche subito uno stupro a soli 10 anni) che si rifugiava nella droga per avere un sollievo effimero dalle sue pene esistenziali, mentre gli uomini che frequentava (musicisti, impresari, spacciatori, agenti federali in incognito) non erano certo degni di stare al suo fianco.

Fortuna vuole che ci abbia lasciato un vasto repertorio musicale in cui spicca "Strange fruit" definita dalla critica nel 1978 "canzone del secolo ventesimo". E se nel 1937 il disegno di legge, presentato al Senato statunitense, volto a penalizzare il linciaggio non fu approvato, è del 2020 un nuova proposta sulla medesima materia portata al Parlamento yankee. Chissà che questa sia la volta buona (ammesso e non concesso che i senatori trumpiani non ostacolino il varo di una giusta legge di civiltà..).

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