La Bellezza non salverà il mondo.
No, la Bellezza non illuminerà le nostre anime, non ripulirà la Storia dal fango, non ci accenderà di luce, non regalerà speranze di riscatto. L’Arte non ci offrirà vie d’uscita e la Bellezza non ci riempirà la vita.
Ci aiuterà solo a sopportarla meglio.
Novembre è un mese di merda, fa freddo anche quando c’è il sole. E c’era un bel sole quella mattina di inizio novembre che si è portata via C.
“La scuola non fa per lei, abbiamo deciso che è meglio che vada a lavorare”. Sua madre ce lo dice tenendo gli occhi bassi per non scoprire, nei nostri occhi, che lo sappiamo che cosa vuol dire quel “lavorare”. Io, invece, gli occhi li pianto in quelli di colleghi e dirigente così da vederli trasformare quelle parole, che sono una condanna per C., in una assoluzione per loro.
Ripenso agli occhi di C. che sembrava non ti fissassero mai e mi vengono in mente quelli di Leonard “Lennie” Tristano che -invece - si spensero, definitivamente, quando lui aveva nove anni. Così Lennie, figlio di Paisà venuti da Aversa a Chicago, fu mandato in una scuola per “diversamente abili”, dove non ci si preoccupava di distinguere tra cecità, malformazione o ritardo. Ma sua mamma si mette in testa di insegnargli a suonare il piano e, cazzo, il ragazzino ha talento! Se ne accorge uno dei suoi professori che lo indirizza al Conservatorio di Chicago, dove Lennie resiste giusto un paio d’anni. Perché, nel frattempo, Lennie, ha scoperto Art Tatum e il jazz.
Aversa, a metà del secolo scorso era poco più di un buco di culo piazzato tra Napoli e Caserta ed oggi, che pretende di essere una città, resta un posto dove non ci vai se non ci devi *proprio* fare qualcosa. Ma ad Aversa c’è una via Lennie Tristano e un Jazz club “Lennie Tristano”. Io ci sono stato e ci ho pure suonato, in una vita precedente.
Moschiano e Taurano sono, invece, ancora adesso due fetidi orifizi che neanche li trovi su una cartina se non sai dove cercarli. Da qualche parte, lì tra Moschiano e Taurano, stanno spiegando a C. come dovrà svolgere quel “lavoro” al quale si è deciso di destinarla.
Io m’ingoio il “vaffanculo” che mi raschia la gola e me ne torno a casa; metto sul piatto “Crosscurrent”.
E alzo il volume.
“Crosscurrent” non è neanche un disco di Lennie Tristano, a dirla tutta. E’ per metà roba sua col suo sestetto e, sull’altra facciata, qualcuno alla Capitol ha deciso di piazzarci un concerto di Buddy De Franco, che non è proprio uno dei primi nomi di jazzisti che ti vengono in mente, e che - con Lennie – ci fa coppia, né più né meno di quanto lo facciano i cavoli con la merenda. Ma su quella prima facciata ci sono “Wow”, “Yesterdays”, “Digression” e, soprattutto, “Intuition”. Così la seconda facciata sta lì a prendere polvere mentre io rimetto e poi rimetto la puntina sul primo lato.
Certo, se non lo conosci, Lennie, ti consiglierei di cominciare da “Lennie Tristano” dove, il nostro oltre a piazzarci alcune delle sue composizioni più belle (come “Requiem” dove si piange la morte di “Bird”) si inventa – siamo nel 56! - i primi esperimenti coi nastri manipolati della storia del Jazz. Tipo in “Line Up” dove Lennie fa registrare prima la sezione ritmica da sola, poi la rallenta e ci suona le sue parti e poi rimanda tutto a velocità normale o anche in “Turkish Mambo”, in cui le tracce di pianoforte vengono suonate separatamente e poi assemblate durante l’editing. Una cosa che sembra una bestemmia per i puristi e i guardiani dell’ortodossia jazz, così qualcuno grida allo scandalo perché incapace comprendere la differenza tra creazione ed artificio.
Ma sono gli stessi che grideranno pure 14 anni dopo, nel ’70, quando Miles Davis e Teo Macero (un altro tizio di cui, prima o poi, dovrò raccontarvi qualcosa) gli tireranno in faccia “Bitches Brew”. E molti di quelli stanno ancora starnazzando.
E, mi sa, che parecchi avrebbero gridato pure allo scandalo se fossero entrati nella mia classe mentre declamavo con grande serietà: “Cambiando canottiera/ho deciso/di metterla leggera/Mutando mutande/debbo ricordarmi/di non metterle bianche/perché con le mutande bianche/si vede subito/la rosa dei pantaloni”. Quel giorno qualcuno, bivaccando fra i banchi, mi aveva lanciato un: “professore ma ti piacciono solo i poeti morti?”, “e tristi” aggiunse subito un altro. Così io tirai fuori un libro con le poesie di “Freak” Antoni che avevo in borsa (perché vedessero che quella roba stava su di un libro, ma mentendo perché pure Roberto è morto e io, davvero, amo solo i poeti morti).
Anche C. rideva. Di nascosto, con una mano davanti alla bocca.
Alzo il volume.
“Lennie Tristano” fu pubblicato nel ’56 e cazzo se Lennie era “avanti”! “Cervellotico”, “freddo”, “altero” dicono ancora oggi i sordi e gli stupidi. Il jazz di quel paisà impomatato era considerato una roba di bianchi che si alambiccavano a mischiare la cerebralità della musica del novecento con il cuore pulsante della madre Africa. E, così, mentre tutti cominciavano a farsi le seghe col jazz modale, Lennie costruiva i suoi intrecci improvvisativi sul contrappunto ed accompagnava con accordi a due mani.
Quelli dicevano “cool jazz” e Lennie s’incazzava perché nella sua musica bruciava il fuoco – altro che “fredda”! – e sarebbe bastato ascoltarsi quell’abisso di lava di “Descent into the Maelstrom” per capirlo, solo che “Descent into the Maelstrom” ebbero il coraggio di pubblicarlo solo nel’78.
Che, infatti, al nostro Lennie finchè fu in vita gli pubblicarono solo tre/quattro dischi (bellissimi e passati sotto silenzio, inutile dirlo). E, certo, il suo caratteraccio non aiutava, “Magnetico e disturbante” lo definì Lee Konitz (che lo conosceva bene, come vedremo), Lennie parlava chiaro e dritto e sembrava fregarsene se gli altri capivano o no. “Non è che devi suonare il jazz per guadagnarti la tua dignità di negro” disse a un giornalista, “quel tizio deve fare attenzione a quello che dice” si affrettarono a rispondergli.
E bisogna fare attenzione a quello che si dice o si fa o – semplicemente – a quello che si desidera fare.
A me sembrava che fosse mio preciso dovere procurarmi una spranga di ferro e far saltare le rotule al “padre” di C. Ma, per mia fortuna, non avevo la più pallida idea di dove fosse ficcata la casa della famiglia di C. in mezzo a quel nulla tra le campagne di Moschiano e Taurano, perché se l’avessi trovato mi sa che, con quel tizio abituato ad entrare ed uscire di galera e con almeno vent’anni meno di me, le rotule saltate sarebbero – con tutta probabilità – state le mie.
Così mi siedo comodamente con le mie rotule al loro posto e mi ascolto “Crosscurrent”.
E alzo il volume.
Prima parte “Wow” con le sue accelerazioni che tolgono il fiato, poi quella carezza gelida di “Yesterdays” ed ecco “Digression” e “Intuition”.
Era il 16 maggio del ’49 e Lennie, insieme ai suoi allievi e sodali Lee Konitz, Warne Marsh e Billy Bauer, trovato un certo Arnold Fishkin come bassista e un batterista di cui in realtà non si sa neanche il nome (e che quel giorno non era neanche lì), aveva messo su un sestetto che già da un paio di giorni stava registrando delle sessions negli studi della Capitol. Quel 16 maggio Tristano decide di provare qualche libera improvvisazione. Così Lennie stabilisce, approssimativamente, il tempo e la successione degli ingressi. E basta. Roba come armonia, chiave, tempo, melodia o ritmo era lasciato totalmente al caso e all’estro dei musicisti che avrebbero dovuto interagire solo sulla base di quella che Lennie chiamava “interazione contrappuntistica”.
Tristano apre la registrazione, suona in 4/4 ma aggiunge frasi che forniscono agli altri un trampolino ideale di entrata quindi, a intervalli di circa 20 secondi, ciascuno degli altri quattro musicisti si unisce: prima Konitz che sembra alla ricerca di un centro tonale, poi Bauer risponde con una sezione scalare e poi dialoga con Tristano. Marsh inizia al minuto 1:09, poi tutti, tranne Fishkin, si spostano su un tempo di 5/4. Ecco che i cinque mettono in campo quella roba della “interazione contrappuntistica” prima che il piano, al minuto 1:44, esegua alcune scale veloci e ricompatti il gruppo fino a quando Tristano non decide la fine della performance.
Racconterà Lennie che: “Non appena abbiamo iniziato a suonare, l’ingegnere alzò le mani e lasciò la sua postazione. Lui e la direzione di A&R pensarono che fossi così idiota che si rifiutarono di pagarmi per i brani registrati, tantomeno di liberarli”. Pare che i pezzi registrati fossero quattro, ma la Capitol ne pubblicherà, controvoglia, solo due (“intuition” e “Digression”) l’anno dopo. Chi li ascoltò, come Charlie Parker, Aaron Copland o il critico Barry Ulanov, si rese ben conto di quanto quella roba fosse rivoluzionaria. Tutti gli altri continuarono a pensare che la musica di Tristano fosse troppo avanzata ed emotivamente fredda. Intanto era nato il free jazz e nessuno se n’era accorto.
Ma Lennie si rompe presto le palle di cercare di spiegare le sue visioni a tutti quegli idioti che non capivano un cazzo di musica. Così, un po’ alla volta, si tirò fuori dall’ambiente musicale e scoprì la sua vera passione: insegnare. Dalla metà degli anni cinquanta Tristano fu, probabilmente, il primo ad insegnare jazz. Lennie divenne un maestro, un caposcuola, con decine di discepoli e seguaci (tra i quali giganti come Konitz, Marsh, Mingus, Satriani e tanti, tanti altri) a cui oltre che musica amava anche insegnare letteratura, filosofia e psicologia.
Sarà per questo che Lennie me lo sento come un fratello? Quante volte me lo sono immaginato ad insegnare con quei suoi metodi “strani” (per esempio faceva canticchiare ai suoi le frasi degli assoli che più gli piacevano e cercava di spiegare la differenza tra “sentimento” e “elaborazione”). Mi picco di credere che io e Lennie facciamo lo stesso mestiere: insegnare.
Ma la scuola dove insegno io si perde per strada i P., i B., le H. e mille altri. E si gira dall’altra parte di fronte al destino indegno di C.
A che cazzo serve una scuola che non salva i Franti? A che cazzo servo io?
Alzo il volume.
Si è capito che Lennie aveva un carattere di merda? Ed anche per questo me lo sento come un fratello. Non gliene fotte un cazzo di piacere o di avere successo, la sua musica è fieramente anticommerciale e lui non fa neanche finta di provare a farsi capire da quelli che considera dei mentecatti che bazzicano l’ambiente musicale. Persino i suoi allievi, che pure lo idolatrano, fanno fatica a parlare di lui e si adombrano ricordando le sue critiche, spesso sprezzanti. Le sue due mogli erano, anche loro, scappate via presto portandosi via i figli. Così, quando a Lennie gli viene un colpo – nel ‘78 a soli 59 anni – è solo in casa ed è già stato dimenticato.
E sai che mese era? Novembre.
Alzo il volume.
E Lei s’incazza: odia il jazz, odia “quel” jazz (le donne odiavano il jazz, non si capisce il motivo, nel tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche); chiude la porta, lo fa con forza, sbattendola in modo che io la senta.
Alzo il volume.
Litigheremo.
Dopo.
Elenco tracce e video
Carico i commenti... con calma