Da appassionato di metal, ogni qualvolta scopro una voce incredibile e mi rendo conto che a suo modo è inserita in una nicchia (seppur nutrita) di appassionati, avverto un po’ di ragionevole fastidio.

Howard Jones è un frontman pazzesco, poliedrico, potente e imprevedibile come un cazzotto in faccia durante una pausa bagno nel cuore della notte. Noto alle cronache per essere stato il frontman dei “Blood Has Been Shed” prima e dei più famosi “Killswitch Engage” (che ha lasciato per problemi personali) poi, con i quali ha pubblicato in totale sette album in dieci anni, Jones è una sorta di talento nomade del metalcore americano. Per quantificare i progetti ai quali ha partecipato e attualmente partecipa, è necessario sedersi con calma a un tavolo e munirsi di calcolatrice.

Mr. Jones, ad oggi, è la voce del supergruppo metalcore Light The Torch, nuovo nome dei The Devil You Know, che è stato modificato nel luglio del 2017 per non specificati motivi. Con lui abbiamo il chitarrista e cofondatore Francesco Artusato, il bassista Ryan Wombacher e il batterista Alex Rüdinger. Inoltre, se non bastasse, Jones ha deciso di dare vita l’anno scorso ad un progetto parallelo, quello dei Sion, band con sonorità più dure rispetto al melodic metalcore dei Light The Torch.

Starei a parlare per ore del passato di Howard ma vi annoierei; pertanto, veniamo a questo nuovo secondo album della formazione di Los Angeles: “You Will Be the Death of Me”. Ho deciso di recensirlo perché se già ero infatuato del primo disco “Revival” del 2018, ora siamo alla dipendenza.

La tracklist prevede dodici pezzi, che alternano episodi dalla potenza inaudita ad altri dove il cantato melodico la fa da padrone. Ciò che amo del melodic metalcore è proprio questa doppia essenza, che qui viene bilanciata egregiamente in ogni canzone, seppur con qualche piccola eccezione.

Si aprono le danze con le percussioni ovattate di “More Than Dreaming”, che ci da subito dimostrazione della vocalità di Howard Jones. Le sue corde qui sono solo al warm up. La opening song ha le caratteristiche di una lunga intro, che ci porta ai nastri di partenza. “Let Me Fall Apart” emoziona, con un ritornello fatto di coralità di sottofondo e una scalata di ottave, graffiate da un timido assaggio di scream.

“End of the World” e “Wilting in the Light” sono unite da un filo conduttore. I ritornelli ci dicono che siamo prossimi alla fine: “No one knows, this is the end of the world.” Poi ci mettono in guardia: “We’re wilting in the light and we stumble in the dark”. In ogni traccia, a riflessioni personali e a temi ricorrenti della vita, viene affiancata la presunta presenza imminente della morte, che passa comunque sempre dalla sofferenza, che è il compromesso al quale dobbiamo scendere in vita.

“Death of me”, che si traveste da title track, è la mia preferita in assoluto. L’overture ha sonorità oniriche, l’amore cantato dalla voce narrante è talmente forte da condurre apparentemente alla morte. All’armonia è contrapposta la prepotenza del growl, che porta dritti all’episodio più aggressivo del disco “Living with a Ghost”, giusto a metà della tracklist, come a voler creare un punto di rottura. Il cantato è quasi interamente in growl e i picchi lasciano comunque spazio ad una concisa parentesi melodica.

“Become the Martyr” e “I Hate Myself”, con “Denyng the Sin” hanno un’anima comune e strizzano l’occhio alle power ballad, condividendo una struttura compositiva molto simile ma non per questo poco godibile.

“Something Deep Inside” potrebbe essere catalogata come pezzo trash metal, martellante e coinvolgente ci agita a dovere. Le corde di Artusato consumano il plettro e dialogano alla perfezione con Jones, che corre e grida.

“Come Back To the Quicksand”, altamente malinconica nel testo e in ciò che trasmette, ci porta dritti verso la fine, ricordandoci che dalle sabbie mobili si può risalire e raccontare la fine della storia con ottimismo.

“Sign Your Name” è la chiusura che non ti aspetti, il corpo estraneo del disco. Una ballad morbida, dolce e riflessiva. “Sign your name across my heart, I want you to be my baby...” L’assolo di chitarra accompagna la fine della dedica e dipinge sul nostro volto un’espressione soddisfatta

Questo secondo lavoro dei Light The Torch non deve essere solo ascoltato, deve essere letto in ogni sua sfumatura con insistenza, perché ogni singolo ascolto è un’esperienza indipendente dalla precedente. Abbiamo a disposizione l’essenza del metalcore e delle emozioni che riesce a trasmettere. Che siate felici, arrabbiati, tristi o malinconici, lasciatevi trasportare.

In definitiva, vi consiglio di entrare subito nel mondo dell’iconico Howard Jones, partendo da questo disco e continuando con tutto il resto. Ce lo meritiamo davvero tutti.

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