Un disco che è un piccolo gioiello, eppure non è mai più stato ristampato dal 1973, esiste “solo” in doppio LP e bisogna cercarlo tra gli usati (a meno di non beccare una riproduzione del 1990 in CD della Accord, che però è bootleggata). Un concerto del 1956 all’Olympia di Parigi, allora tempio del jazz e della musica “esotica” oltre che delle stars internazionali: e senza dubbio Lionel Hampton era in tutte queste categorie, ma “Live in Paris” è uno dei pochi dischi al cui ascolto si è indotti a saltare sulla sedia e a verificare più volte la data di registrazione.

Il fatto è che negli anni Cinquanta si divertivano come e più di noi: il mondo non era così conosciuto e globalizzato, le diverse culture e le musiche erano tutte un po’ “exotica” (da Rodrigo a Yma Sumac, da Reinhardt a Sinatra). Il nascente fenomeno del rock and roll (Little Richard arriva prima di Elvis) sembrava una bizzarria di adolescenti isterici e il jazz in Europa suonava ancora come roba indigena, ad uso vagamente scenografico e tribale. Il cool jazz nasce nel 1949 ma per molti anni sarà fuori dal grande circuito dell’intrattenimento, troppo formale, troppo intellettuale e rarefatto (sarà prediletto da Kerouac e Ginsberg). In Europa arrivano solo il jazz e la world music più coreografici (tra cui quel vecchio volpone di Louis Armstrong) e Hampton porta in scena una band scatenata, in cui il suono avvolgente e ancora insolito del suo portentoso vibrafono è supportato da una sezione ritmica che sembra quella dei Grand Funk di vent’anni dopo, mutatis mutandis. Nelle note di copertina si parla espressamente di “rock’n’roll mood”, le trombe sono squillanti e la chitarra sembra Wes Montgomery, e c’è una batteria della madonna già dai primi minuti, e quando lo show si chiude i musicisti e il pubblico stanno scandendo il tempo con urlacci degni di uno show cafone, tipo J. Geils Band o Slade per intenderci. Con quel vibrafono incantato poteva fare Bach come poi farà il Modern Jazz Quartet, e ogni tanto lo fa e lo sa fare meravigliosamente, però la sua band non è in smoking ed il pubblico non sta seduto ad ascoltare in silenzio, fa casino come ai concerti di Kim Fowley o Liberace (altro beniamino di Parigi e Las Vegas che dovremo approfondire, un giorno o l’altro).

Insomma: dopo aver ascoltato Stray Cats, Working Week, Robert Gordon o Style Council, potrebbe venirci la voglia di andare a scovare gli originali e farci un bagno di Jerry Lee Lewis o Hank Williams, oppure nel jazz torrido da cui nasceranno “Land Of 1000 Dances” o “Sex Machine”, o il blues mutato di Albert Lee o B.B. King. Lionel Hampton è stato un grandissimo protagonista del jazz, ha suonato nella band di Benny Goodman (quindi con Gene Krupa) e con Mingus, Art Farmer, Oscar Peterson, Stan Getz e Quincy Jones; ha imparato a stare dietro a quella locomotiva in corsa che era Bird, e forse nasce tutto da lì, passando per Davis e l’urgenza di Coltrane. Non è il jazz che ha cambiato il mondo, non è “Bitches Brew”, ma è comunque la testimonianza di un periodo in cui il groove poteva essere ovunque ed aveva il pregio di far saltare il pubblico a tempo, esattamente nel 1956.

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